02 febbraio 2009

 
     

Non ci sono innocenti nel braccio della morte
di Claudio Giusti*

La nostra lotta contro la pena capitale è una lotta morale ed etica. Una lotta per il rispetto dei diritti umani, per la vita, il diritto e la giustizia. Una lotta che non ha bisogno di giustificazioni, perché la pena di morte è un sacrificio umano futile e feroce.

Che sia la “giustizia del re” giapponese o il democratico “linciaggio legale” americano il risultato non cambia: la pena di morte è l’uccisione rituale di alcuni disgraziati allo scopo di placare le paure della società.

Questa constatazione spiega da sola il nostro impegno. Questa è la ragione per cui non ci battiamo contro la pena capitale perché uccide gli innocenti, ma perché uccide i colpevoli. Tuttavia la pena di morte ha altre ripugnati caratteristiche: è arbitraria e crudele, inutile, sordida, costosa, razzista e classista. Brutalizza e degrada il paese che la pratica. Predilige le minoranze etniche e religiose, i poveri, i pazzi. Uccide gli innocenti.

Questi aspetti odiosi della pena capitale sono le buone ragioni pratiche da offrire a quelli che Austin Sarat chiama gli “abolizionisti riluttanti”, cioè quelle persone che, pur mantenendone una teorica approvazione, cercano una scusa ragionevole per chiudere con il patibolo e fra queste scuse la più forte è indubbiamente la possibilità che sia uccisa una persona innocente.

Autori come Risinger e Espy affermano in America i condannati a morte innocenti, sia nel braccio che “giustiziati”, sono almeno il cinque per cento e i forcaioli hanno l’incubo che ciò sia dimostrato in tribunale.

La possibilità che un innocente sia stato ucciso è il tallone d’Achille della pena di morte statunitense ed è divenuta una sorta di ricerca abolizionista del Santo Graal; anche se alcune dolorose esperienze ci hanno insegnato che le proteste d’innocenza che giungono dal Braccio possono essere false, indimostrabili o irrilevanti.

False, come ha mostrato, dopo dieci anni di battaglie legali, il test post mortem di Roger Keith Colemann. Indimostrabili, perché i reperti sono scomparsi e i test inconcludenti. Irrilevanti, perché l’istanza doveva essere sollevata a un livello giudiziario precedente ed ora è procedural defaulted.

In ogni caso l’enfasi posta sull’innocenza del condannato (da dimostrarsi con il test del Dna, anche se sono solo una dozzina i condannati che ha salvato) produce il “paradosso Barnabei”. Il caso viene riaperto (cosa quasi impossibile) e l' esame del Dna ne dimostra la colpevolezza, così lo uccidono con serena coscienza.

Viceversa se l'esame ne dimostra l'innocenza lo liberano affermando che il sistema ha funzionato e ammazzano tranquillamente gli altri condannati perché questi sono colpevoli. Oppure il Governatore si convince della sua possibile innocenza e concede la grazia, intanto che gli altri sono uccisi perché nessuno si è mosso per loro.

In definitiva, senza sottovalutare l’enorme valore emozionale dell’innocenza, i fatti ci impongono un approccio pragmatico ai limiti del cinismo.

Un approccio alla pena di morte che punti sempre al nocciolo dell’abolizionismo, ma che lasci, agli uomini di buona volontà, una valida scusa che giustifichi, di fronte all’opinione pubblica, un atto di umanità.

* membro del Comitato scientifico dell'Osservatorio

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