22 novembre 2008

 
     

Riflessioni attorno alla violenza maschile contro le donne
di
Tamar Pitch*

In questo numero (1) si parla di una questione che è stata ed è variamente nominata: violenza di genere, violenza domestica, violenza familiare, e così via.

Le diverse definizioni non si equivalgono, anzi esse riflettono punti di vista e paradigmi differenti, come sempre succede. Io preferisco la lunga locuzione del titolo di questa breve introduzione, perché dice esattamente che si tratta qui di uomini che maltrattano (fisicamente e /o psicologicamente) donne, talvolta (non raramente) fino ad ucciderle. Non dice, invece, che questa violenza è esercitata perlopiù da uomini che hanno una relazione con le donne che maltrattano, di solito una relazione familiare o sentimentale.

Questo è certamente il punto messo a fuoco in questo fascicolo, e tuttavia esso fa parte (una parte ampiamente maggioritaria) della violenza che i maschi esercitano sulle donne, conosciute e no. Intendo dire che, se vi è uno specifico familiare o relazionale, fino a poco tempo fa virtualmente invisibile, tuttavia questo specifico fa parte di un continuum di sopraffazione maschile sulle donne, ossia non è un fenomeno che attiene alla famiglia o alla relazione sentimentale in quanto tali, ma piuttosto alla modalità di relazione degli uomini con le donne.

Nelle pagine che seguono, non ci sono lavori sullo stupro di per sé. Molto se ne è infatti già parlato in Italia negli anni novanta, durante la lunghissima campagna dei movimenti delle donne per mutare la legge risalente al Codice Rocco. Ci sarebbe naturalmente da dire ancora moltissimo, soprattutto alla luce dell'impatto della legge nuova, ma qui si è privilegiata l'ottica che mette a fuoco i diversi aspetti della violenza contro le donne, di cui lo stupro non è che uno, specialmente se considerato come singolo atto, e ancor di più commesso magari da sconosciuti (questo è il paradigma corrente dello stupro).

Benché esistano ormai da molti anni significative esperienze di contrasto e aiuto e riflessioni sulla violenza maschile in "famiglia" o tra partner, attuali o ex, questo aspetto fatica a raggiungere, in Italia, lo statuto di problema sociale. Dal punto di vista legislativo, si è avuta l'introduzione dell'ordine di protezione (ne parla Creazzo nel suo articolo) del resto assai contestato da molti giuristi, e, nella legislatura passata, la messa a punto di un progetto di legge contro lo stalking, di cui parla in questo fascicolo Federica Resta.

La questione delle definizioni, della natura del fenomeno della violenza maschile contro le donne, di come contrastarla, non solo penalmente, sono almeno in parte discusse nei saggi che seguono. Io vorrei invece leggere tale questione come cartina di tornasole da un lato per la analisi degli attuali rapporti tra uomini e donne, dall'altro per avanzare qualche ulteriore congettura sul modo come la "sicurezza" si è imposta come centrale tema politico e le conseguenze di ciò.

Ci sono molte ricerche, anche in Italia, non solo sulla cosiddetta violenza di genere, e sulla violenza contro le donne in famiglia, ma anche sulla percezione dell'insicurezza e sulle sue cause da parte femminile. E ciò che da molte di queste ricerche risulta è che l'insicurezza di metà della popolazione è sessuata al maschile, piuttosto che connotata dall'etnia o dal colore della pelle. I quali naturalmente contano anch'essi, sia perché siamo esposte come tutti al martellamento mediatico, sia perché di chi non è come "noi", o meglio come i maschi nostrani, sappiamo meno bene prendere le misure.

Ma ciò che caratterizza principalmente quello che alle donne "fa paura" rimane l'essere di sesso maschile. Vero questo in realtà anche per gli uomini, i quali però non lo sanno, o non ne sono consapevoli, che è la stessa cosa. Tradizionalmente, inoltre, sono solo gli "altri" che stuprano: stranieri, nemici, i ricchi per i poveri, i poveri per i ricchi, i neri per i bianchi, i bianchi per i neri. E viceversa: ossia, è lo stuprare le nostre donne che caratterizza l'alterità presso di "noi".

Per parafrasare Levy-Strauss, "noi" sposiamo, "loro" stuprano, e lo stupro caratterizza la guerra, la cui alternativa è appunto l'esogamia, lo sposarsi fuori, l'alleanza attraverso la scambio delle donne. I nemici sono coloro che insidiano e molestano le "nostre" donne, e viceversa è una caratteristica attribuita a tutti quelli che si vogliono definire nemici quella di mettere in pericolo le "nostre" donne (e i bambini, naturalmente, in parte almeno come conseguenza).

Agli uomini la protezione. Nei due sensi di questa parola, ossia compresa la "protezione" delle prostitute, ciò che mette bene in luce l'ambivalenza della protezione maschile delle donne. Da cui la giustificazione di molte guerre, comprese le ultime: dobbiamo salvare le donne, non solo le nostre, ma anche le "loro" . Nell'ultima campagna elettorale, questi temi sono stati usati in pieno, caratterizzando la "sicurezza" come minacciata da stranieri che stuprano e uccidono le "nostre" donne, a riprova della loro inciviltà, della loro pericolosità, del loro dover essere caratterizzati e trattati come "nemici" (e barbari selvaggi, poiché caratterizzati come maltrattanti le loro stesse donne).

A poco valgono le statistiche, le ricerche sociologiche, le stesse mobilitazioni femministe, che mostrano e denunciano abbondantemente come le donne siano assai più a rischio dentro le sicure mura di casa, o nei luoghi di lavoro, da parte di conosciuti, padri, fratelli, partner, amici, datori di lavoro. Che la questione sicurezza, così come è agitata pubblicamente, poco abbia a che fare con metà della popolazione lo si è detto invano molte volte. Molto, invece, ce l'ha la paura.

La paura, dice Tronti, è già una risposta. Ma a che cosa? Si è detto, ripetutamente, all'incertezza rispetto al futuro, al venir meno delle protezioni dello stato sociale, alla precarietà del lavoro, al moltiplicarsi dei conflitti, ad una globalizzazione mal gestita. Io penso, però, che la violenza maschile contro le donne possa dirci anche qualche altra cosa. Essa testimonia di una paura delle donne che è complementare a quella dello straniero. Non solo nel senso che le donne sono costruite come "l'altro" dell'uomo, e dunque destinatarie di una diffidenza analoga.

Le donne sono nell'immaginario collettivo depositarie del futuro, della continuità dell'identità culturale e nazionale (di qui, la costruzione dello straniero come stupratore e, dunque, contaminatore di questa identità, anche, se non soprattutto, quando si presenta nella veste di possibile sposo: modalità di integrazione sempre mal vista, sempre paventata, mascherata spesso nello stereotipo della potenza sessuale straripante del "selvaggio"). E allora le donne bisogna tenerle sotto controllo, tanto più quanto più, come oggi, dispongono di una certa libertà sessuale e riproduttiva.

Insomma, è la mia tesi, la paura della libertà delle donne è strettamente connessa a quella paura del futuro e del "diverso" che spinge alla ricerca o all'invenzione di identità culturali pseudo-omogenee, pseudo-tradizionali, e la violenza maschile, in specie verso le ex-partner, me ne sembra una spia assai significativa. Tutto si tiene, insomma, le campagne contro i rom (ladri, violentatori, rapitori di bambini) e l'odore di ricatti e scandali "sessuali" a carico dei nostri governanti, prove, più che del disprezzo verso le donne, della necessità di tenere a bada un'impotenza non solo fisica, ma ormai pienamente simbolica, una "impotenza" che parla della crisi verticale della maschilità tradizionale, a sua volta -la crisi-- connessa strettamente e anzi produttrice da un lato di una politica tutta decisione ed eccezione --giustificata da emergenze variamente motivate e costruite, di cui la paura è levatrice-- , dall'altro di una politica timida, sottomessa, tentennante, ambivalente.

Direi allora, almeno in parziale contrasto con alcuni degli articoli che seguono, che la violenza maschile contro le donne è indizio non del patriarcato, ma della sua crisi. E' adesso, infatti, che la si riconosce come violenza, che la si chiama così, piuttosto che giusto controllo, correzione adeguata, legittimo uso di mezzi di disciplina. La chiamano così, ovvio, le donne in primo luogo, e questo è possibile appunto perché essa non viene accettata più come qualcosa di naturalmente connesso all'esercizio di un'autorità riconosciuta, ma invece come potere arbitrario, lesivo della propria dignità e autonoma soggettività.

E infatti ciò che viene chiamato violenza (maschile) si estende, si allarga, a misura che le donne acquisiscono libertà e, a loro volta, quote di potere. Questo non limita né riduce la strage, al contrario, precisamente perché libertà e potere femminili fanno paura. La violenza maschile che si esprime nelle aggressioni, nelle persecuzioni, nelle uccisioni, nelle botte e così via è del resto in relazione alla violenza di leggi repressive e lesive appunto della libertà sessuale e riproduttiva delle donne (la nostra legge 40, per esempio, e i ricorrenti tentativi di limitare l'accesso all'interruzione volontaria di gravidanza). Paura, creazione di "comunità di complici", esaltazione della famiglia cosiddetta tradizionale e dei rapporti primari, ricerca di identità di "sangue e suolo" riposano tutte sul controllo, la disciplina, infine la violenza sulle donne.

La storia sembra antica, e certo lo è, ma solo in parte, perché è proprio quando, come adesso, le identità, le comunità, si rivelano illusorie, le famiglie inesorabilmente plurali e diversificate, i legami costitutivamente fragili, che il controllo diventa violenza esplicita, segno di impotenza e frustrazione, piuttosto che di un senso di autorità legittima. Della crisi del maschile, in tutti i sensi in cui esso si dispiega(va), molto ci sarebbe da dire. Essa ha a che fare certo con la sessualità, ma soprattutto con la relazione, e poi con il declino inesorabile dell'idea di progresso unilineare, del sogno del dominio della "natura" (di cui tradizionalmente fanno parte le donne, e il femminile), con l'incombere delle catastrofi ecologiche, con la fine delle cosiddette Grandi Narrazioni e dunque anche di una politica da esse orientata.

Buffo, anzi grottesco, cercare il Salvatore in un ometto ossessionato dal mito della "virilità", intesa non come l'insieme delle virtù eroiche, ma proprio terra terra (anzi, sottoterra): è quello che, però, succede in Italia. E, benché la persona sia assai diversa e anch'io, come molti nel mondo, mi auguri che ce la faccia, la sfida tra Clinton e Obama, vinta da quest'ultimo, si è giocata anche su questo. Sessualità e relazione, intesa questa come rapporto con un soggetto incarnato, corporeo, concreto, sono esattamente ciò che manca oggi nel modo prevalente in cui gli uomini si confrontano con le donne. Segno di paura o conseguenza della paura?

Intendo dire che la scomparsa dell'eros, del desiderio, così come segnalato dal crescente ricorso alle relazioni virtuali, senza corpo, dalla dominanza di un femminile esibito tutto eguale, stereotipo, e da vedere, più che da toccare, non possono essere letti come insignificanti sia per ciò che riguarda la "paura", sia, che è più importante, per l'"impotenza" del maschile, la sua fragilità, che si riversa così nella violenza come nell'afasia della politica. Il problema, per noi criminologi autocritici, non è allora tanto quello di confrontarci con l'indignazione morale e trovare ad essa una risposta non penale, come suggerisce Melossi. Anche perché, se prendiamo sul serio Durkheim, la risposta dovrà comunque essere punitiva. E punire, di per sé, è spesso cosa assai sensata e certo necessaria per esempio in ogni processo di apprendimento (come tutti i genitori sanno).

Nelle pagine che seguono, si segnalano del resto i limiti, anche gravi, della risposta puramente penale alla violenza maschile, ed è un topos del femminismo giuridico la diffidenza nei confronti del penale, soprattutto nella sua veste di riduttore della complessità relazionale nel rapporto tra colpevole (individualmente responsabile) e vittima (passiva e innocente). Ed è chiaro che la violenza maschile non si combatte (solo) mettendo sotto chiave chi la esercita (troppe carceri dovremmo costruire, e, se davvero avessimo a cuore la percezione di sicurezza femminile, tutti gli uomini dovrebbero essere strettamente sorvegliati), cosa che tra l'altro spesso si scontra con la volontà stessa e gli interessi delle donne vittime.

C'è però, qui sì, da tener conto anche del contrario, ossia dell'indignazione morale di molte donne, quella per esempio che si è mobilitata per leggi più dure sullo stupro, al tempo stesso ricompattando un movimento che si andava frammentando e rilegittimando così involontariamente la giustizia penale. L'attrazione del penale è complessa tanto quanto il penale, di per sé, semplifica. Anzi, la semplificazione fa parte di ciò che attrae. E' in questione non solo l'impulso a voler vendicata un'offesa, ma anche la legittimazione simbolica delle proprie buone ragioni, o ancora del valore generale, collettivo, di ciò che è stato violato o offeso, e magari, insieme e contraddittoriamente, della propria soggettività morale e politica.

Quello del penale è un linguaggio molto potente nelle nostre società e ricorrervi non significa sempre che si vuole più gente in carcere. L'esperienza del femminismo politico italiano può aiutare a mettere in luce e a navigare attraverso questa complessità del penale, a spiegare insieme la sua attrattiva e il suo essere sempre deludente, rispetto a domande a loro volta non solo complesse, ma spesso ambivalenti. Non c'è dubbio, per esempio, a mio parere, che il ricorso al penale in chiave di legittimazione politica abbia ricevuto in Italia un grande impulso dalla campagna di parte del movimento delle donne contro lo stupro, negli anni ottanta e novanta.

A fronte del prevalere nel discorso pubblico, specialmente, ma non solo, di sinistra, di retoriche che attribuivano ogni problema a "contraddizioni" strutturali del "sistema", il ricorso al penale chiamava in causa le responsabilità individuali, dei singoli, e contemporaneamente inaugurava l'era della "vittima", ossia la presa di parola in nome dell'aver subito un'offesa (precisa, locale, situata). Era, da una parte, quella del movimento, un ricorso al potenziale simbolico del penale, tant'è che nella originaria proposta di legge non si chiedevano aumenti di pena per gli stupratori, ma da un'altra parte un richiamo a quella "indignazione morale" strettamente legata alla punizione, e suscettibile dunque di attrarre consensi anche aldifuori del movimento stesso. E tuttavia la delusione nasce non solo dalla semplificazione che il penale induce, ma anche dalla sua inefficacia rispetto alla domanda sia di punizione che di soluzione del problema stupro (o violenza). Per non parlare della sua inadeguatezza a promuovere soggettività politica.

Dice Melossi: abbiamo sempre detto (noi criminologi critici) che la repressione non funziona, e invece non è vero. Non credo che l'abbiamo sempre detto, ma è certo che, perlopiù, non funziona. Ossia, funzionerebbe, probabilmente, nel mondo di Hobbes, ma non siamo in quel mondo, e certamente non potrebbero esserlo le donne (metà della popolazione), se non segregando tutti gli uomini. La soluzione è dunque la "rivoluzione", la palingenesi totale? Neanche da giovanissimi, nei turbolenti primi anni settanta, l'abbiamo mai detto e pensato.

Quanto al femminismo politico, questa è stata una delle prime mitologie della sinistra comunista che sono state criticate. La questione della violenza maschile mostra appunto, per quanto contraddittoriamente, che le lotte delle donne, senza la presa del palazzo d'inverno, hanno mutato molte cose: precisamente, che molto di ciò che prima era dato per scontato, accettato, legittimato, oggi lo è assai meno, tanto da essere nominato come violenza e prevaricazione. Il penale ha svolto un ruolo in questa trasformazione, e continuerà a svolgerlo, soprattutto sul piano culturale e simbolico, ma soltanto come una delle armi, e non certo la principale, di cui ci si può servire nell'ambito di lotte molto più articolate e complesse.

Tutto questo, certamente, è banale, perché infine si traduce nella vecchia, ma sempre valida idea, che il modo come reati e pene sono percepiti e gestiti dipende in larga misura dalla politica, intesa in senso orizzontale, ossia dalle lotte per cambiare le cose e se stessi/e, dove ovviamente la cultura ha un grande peso, e quindi, sia pure marginale, ha un peso anche il lavoro di criminologi non solo critici, ma autocritici.

(1) l'intervento apparira' nella rivista "Studi sulla questione criminale", 2, 2008. Lo pubblichiamo in anteprima per gentile concessione dell'autrice.

* criminologa, professore associato di sociologia del diritto presso l'Università degli Studi di Camerino, Facoltà di Giurisprudenza, e direttrice della Rivista SQC, Università di Perugia.

Speciale giustizia USA

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