05 maggio 2008

 
     

Giappone : le 'donne di conforto' coreane , la rivolta delle schiave
trad. di Marianita De Ambrogio*

Il gruppo in diminuzione costante delle «Donne di conforto» della Corea ha lottato per anni per ottenere giustizia. Ma un movimento revisionista crescente in Giappone rifiuta di riconoscere gli abusi che hanno subito.

In Corea, le chiamano halmoni o nonne – benché molte siano talmente segnate mentalmente e fisicamente da non essersi mai sposate né avere avuto figli. In Giappone, sono conosciute come «Donne di conforto», un eufemismo odioso per il loro ruolo forzato di fornire «conforto» alle truppe giapponesi in bordelli militari. Ma nel mondo, un’altra denominazione più dura le perseguiterà fino alla tomba: schiave sessuali.

Kang il-chul, è una delle poche sopravvissute che sta finendo la sua vita nella «Sharing House», un museo e rifugio comunitario a due ore dalla capitale della Corea del Sud, Seul. E’ un edificio severo in cemento in una zona poco popolata tra campi di riso e diverse foreste di montagna. Ma lei dice di avervi trovato una forma di pace. «Sono tra le mie amiche, che mi trattano bene» dice.

Racconta che è stata presa all’età di 15 anni e mandata in una base giapponese in Manciuria. Dalla seconda notte, prima delle sue prime mestruazioni, è stata violentata. Notte dopo notte, dei soldati facevano la fila per abusare di lei. Ha delle cicatrici sotto il collo di bruciature di sigaretta e lei dice di soffrire di mal di testa perché è stata picchiata da un ufficiale giapponese. «Ho sempre lacrime di sangue nella mia anima quando penso a quanto è accaduto» dice. Come molte donne, trova traumatizzante ricordare il passato, piangendo e torcendo un fazzoletto e dondolandosi mentre parla. Ma si arrabbia e batte sul tavolo davanti a sé quando si menziona il Primo ministro giapponese Shinzo Abe. «Quest’uomo orribile vuole che noi moriamo».

L’anno scorso, il signor Abe ha sbalordito la «Sharing House» dichiarando che non ci sono “prove” che dimostrino che le donne erano state costrette, capovolgendo la posizione giapponese. Travolto da una tempesta politica e da pressioni da parte degli alleati USA, egli ha fatto marcia indietro con une serie di dichiarazioni formulate con prudenza che hanno calmato il calore della controversia. Ma la negazione «ha atterrito» Kang. «Avevo l’impressione che il mio cuore si rivoltasse» dice. «La più gran paura delle donne è che si dimentichino dopo la loro morte i crimini commessi contro di loro» aveva detto Ahn Sin Kweon, il direttore di «Sharing House».

Migliaia di donne asiatiche –alcune di appena 12 anni – «sono state ridotte in schiavitù… e violentate, torturate e brutalizzate ripetutamente per mesi e anni» secondo un rapporto di Amnesty International. Abusi sessuali, botte e aborti forzati hanno reso molte donne incapaci di avere figli. La maggior parte delle sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato apertamente, all’inizio degli anni ‘90. Tra loro, Kim Hak-soon, che è stata violentata e trattata, secondo le sue stesse parole, «come un cesso pubblico». «Noi dobbiamo ricordare queste cose che ci sono state imposte» aveva detto prima di morire.

L’appello era stato ripreso da circa 50 donne, ricorda Ahn Sin Kweon. Molte donne non erano sposate o vivevano sole in piccole città, vivacchiando a stento. «Un’organizzazione buddista ha aiutato a costruire “Sharing House” su un terreno offerto negli anni ‘90. All’inizio erano abbastanza reticenti perché più erano sotto le luci dei proiettori e sempre più persone sapevano che loro erano state violentate. E’ molto difficile per donne di questa generazione discutere di temi sessuali apertamente, e ancor meno di esperienze vissute».

Il Giappone aveva riconosciuto ufficialmenta la schiavitù militare in tempo di guerra in una dichiarazione storica del 1993, seguita da un’offerta di risarcimento proveniente da un piccolo fondo privato, estinto l’anno scorso. Ma questa dichiarazione detta di Kono ha tormentato a lungo i revisionisti giapponesi che negano che l’esercito sia stato coinvolto direttamente. «Le donne erano prostitute legali che si guadagnavano del denaro per la loro famiglia» dichiara l’universitario revisionista Nobukatsu Fujioka. Benché il signor Abe non sia più primo ministro, sostituito da Yasuo Fukuda, Kang il-chul e le sue compagne vittime temono che il ritorno del negazionismo sia solo una questione di tempo, forse con il prossimo Primo ministro giapponese. La lotta caratterizza gli ultimi anni della loro vita; se perdono, saranno catalogate come prostitute.

Quando la sua salute glielo permette, questa donna di 82 anni si trascina ad una manifestazione settimanale davanti all’ambasciata del Giappone a Seul. Le ex schiave sessuali vi si recano dall’inizio degli anni ‘90 e hanno svolto la loro 800° manifestazione consecutiva in febbraio. Esse urlano con rabbia contro i muri le loro rivendicazioni che comprendono la punizione di coloro che le hanno violentate, le scuse da parte dell’imperatore e la costruzione di un memoriale in Giappone, ma è improbabile che ce la facciano. La manifestazione del mercoledì, come la chiamano, ha assunto un carattere rituale ed è impregnata di tristezza visto che il gruppo delle sopravvissute, già piccolo, è ridotto a causa delle malattie e della mortalità.

Delle 15 residenti alla “Sharing House” ne restano solo 7, la maggior parte delle quali in cattive condizioni di salute. Ma le donne sono incoraggiate da piccole vittorie. L’anno scorso, il Congresso USA ha approvato la Risoluzione 121 che invita Tokyo a «scusarsi ufficialmente e ad accettare la responsabilità storica» per la questione delle donne di conforto. Kang il-chul è una delle donne che sono state a Washington per testimoniare. La risoluzione presentata dal politico americano di origine giapponese Mike Honda, è stata fortemente combattuta da Tokyo.

Un editoriale nel più grande giornale giapponese, Yomiuri, ha detto che non esisteva «un’ombra di prova per giustificare» l’affermazione che il governo giapponese aveva costretto e reclutato donne. Oggi, un grande manifesto che mostra un Honda splendente è appeso nel cortile più grande del comune. Una copia della Risoluzione 121, firmata da Honda e dalla presidente del Congresso Nancy Pelosi è appesa nell’ufficio di Ahn Sin Kweon. «La risoluzione è stata molto importante per noi perché la nostra priorità è mantenere viva la memoria di queste donne» dice, ricordando l’accoglienza fatta ad Honda durante la sua visita lo scorso novembre. «E’ stato trattato come un eroe».

Curiosamente, forse, il signor Ahn dimostra una grande rabbia verso il suo governo. Come molti militanti, crede che Seul abbia barattato ogni rivendicazione di risarcimento quando ha firmato un trattato d’amicizia con il Giappone nel 1965, in cambio di milioni di dollari di prestiti a basso interesse e di sovvenzioni. Egli dice che spetta anche al popolo giapponese criticare i loro governi. Ogni anno, dice, circa 5.000 Giapponesi viaggiano fino al suo ufficio. I loro incontri con le ex schiave sessuali sono spesso strazianti e piene di lacrime. Alcuni restano come volontari per lavorare nel centro. Ma Kang il-chul diffida molto dei giornalisti giapponesi. «Essi vogliono mostrarci deboli e morenti» grida battendo di nuovo sul tavolo arrabbiata. «Soprattutto l’equipe televisiva. Essa segue le donne più vecchie e più malate nelle vicinanze. Più tardi, mi ferma mentre fotografo una donna esile che guarda la TV, lo sguardo vuoto. «Dovete mostrarvi forti» esige e noi la fotografiamo mentre posa come un boxeur, accanto al monumento alle schiave sessuali.

Lei ricorda il giorno in cui è stata rapita. «I soldati avevano una lista dove figurava il mio nome. Mi hanno fatto salire un camion. Mio nipote è uscito per guardarli. Era appena un bambino piccolo. I soldati gli hanno dato dei calci e lui è morto». Ricordi come questi la rendono forte, dice. «Le generazioni future ci chiameranno prostitute. O il governo giapponese salverà la faccia, o noi salveremo la nostra».

* M. De Ambrogio fa parte delle Donne in nero di Padova. L'articolo originale, di David McNeill, e' pubblicato dall'Independent del 24 aprile 2008. Si ringrazia Doriana Goracci

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