11 giugno 2007

 
     

Informazione e mafia : il caso Riolo e i processi per diffamazione
di osservatoriosullalegalita.org

La questione delle sentenze civili di condanna a giornalisti che hanno scritto commenti su vicende di mafia e' tornata alla ribalta di recente a seguito della sentenza di Cassazione che - dopo 12 anni di processi civili - ha confermato il pignoramento di un quinto dello stipendio fino alla pensione e del TFR nei confronti del politologo Claudio Riolo nella causa intentata dall'europarlamentare ed e presidente della provincia di Palermo Francesco Musotto per diffamazione a mezzo stampa.

La vicenda di Riolo si distingue dalle altre analoghe perche' l'autore dell'articolo e' stato il solo chiamato a risarcire il danno, sebbene l'articolo fosse stato pubblicato su diverse testate e fosse stato successivamente sottoscritto da diversi esponenti della cultura e politici, alcuni dei quali fanno parte oggi della Commissione parlamentare antimafia, i quali avevano scritto di condividerne "in pieno i contenuti e ritenendolo legittima espressione dell'esercizio della libertà di stampa, di opinione e di critica politica".

Ma vediamo i fatti riassuntici dallo stesso Claudio Riolo:

- Nel novembre '94 "Narcomafie" (il mensile diretto da Don Ciotti) pubblica un articolo di Claudio Riolo (politologo presso l'Università di Palermo) intitolato "Mafia e diritto. Palermo: la provincia contro sé stessa nel processo Falcone. Lo strano caso dell'avvocato Musotto e di Mister Hyde". Si tratta di un commento critico alla decisione di Francesco Musotto, Presidente della Provincia di Palermo e avvocato penalista, di mantenere la difesa di un suo cliente, imputato nel processo per la strage di Capaci, mentre l'ente locale si costituiva parte civile nello stesso processo.

- Dopo cinque mesi (aprile '95) Musotto avvia (solo nei confronti di Riolo, senza tirare in ballo la rivista) un procedimento civile per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa, chiedendo 700 milioni di risarcimento (500 per danno patrimoniale e 200 per danno morale).

- Come risposta l'articolo viene ripubblicato in maggio su Narcomafie e sul quotidiano Il Manifesto (3/5/95), aggiungendo alla firma dell'autore quella di 28 esponenti del mondo politico e culturale (Salvatore Alamia, Aurelio Angelini, Antonio Bargone, Luciana Castellina, Franco Cazzola, Luigi Ciotti, Mario Dogliani, Giuseppe Di Lello, Pietro Folena, Francesco Forgione, Alfredo Galasso, Tano Grasso, Giuseppina La Torre, Giuseppe Lumia, Simona Mafai, Luigi Manconi, Antonio Marotta, Alfio Mastropaolo, Massimo Morisi, Gaspare Nuccio, Renato Palazzo, Rosanna Pirajno, Franco Piro, Umberto Santino, Massimo Scalia, Alberto Sciortino, Nichi Vendola, Gianfranco Zanna) "che lo fanno proprio, condividendone in pieno i contenuti e ritenendolo legittima espressione dell'esercizio della libertà di stampa, di opinione e di critica politica". Musotto non reagisce e non procede (né civilmente né penalmente) contro nessuno dei nuovi firmatari né contro le testate giornalistiche.

- Dopo quasi sei anni di lungaggini processuali l'autore viene condannato in primo grado (da un avvocato in funzione di Giudice Unico della I^ Sezione Civile bis del Tribunale di Palermo) a pagare 80 milioni per danni morali, che con gli interessi pregressi diventano circa 118, e con quelli futuri 140. Dal giugno 2001 subisce il pignoramento di un quinto dello stipendio. Per esaurire il debito non sarà sufficiente il tempo che lo separa dalla pensione e, quindi, l'atto di pignoramento prevede esplicitamente anche l'indennità di fine rapporto.

- Riolo ricorre in appello e dopo circa due anni (aprile 2003) la I^ Sezione Civile della Corte di Appello di Palermo conferma la sentenza di primo grado.

- L'autore ricorre in Cassazione nel luglio 2003. Dopo 3 anni e 8 mesi (marzo 2007) la III^ Sezione Civile della Corte di Cassazione deposita la sentenza che respinge il ricorso (nonostante il P.M. ne avesse accolto uno dei motivi). Dall'avvio del procedimento civile (aprile '95) sono passati 12 anni.

Secondo Riolo (il quale ricorda di essersi sempre schierato contro gli attacchi e i tentativi di delegittimazione della magistratura e di star semplicemente criticando la sentenza), questa decisione e i giudici costituisce "un grave precedente giurisprudenziale, che potrebbe, di fatto, scoraggiare l'esercizio di alcuni fondamentali diritti garantiti dalla Costituzione. In particolare, sul terreno del contrasto al fenomeno mafioso, è a rischio la possibilità stessa di conoscere, criticare e studiare le contiguità tra politica e mafia".

Prima della sentenza definitiva del caso Riolo, Umberto Santino, Presidente del Centro Impastato, a sua volta chiamato a rispondere di una analoga accusa, scriveva: "questioni del genere, in cui sono in gioco la libertà di ricerca e di informazione e l'onorabilità delle persone, dovrebbero essere decise da appositi giurì d'onore e avere sanzioni diverse dal risarcimento monetario. È davvero singolare che l'onore venga considerato come un genere da supermercato. C'è da chiedersi, inoltre, quale danno sia stato recato dall'articolo di Riolo e dal libro di Santino a personaggi che hanno continuato la loro carriera politica o si apprestano a riprenderla, nonostante il loro coinvolgimento in vicende giudiziarie, concluse o in corso".

Santino ricordava che anche la condanna subita nel 2004 da Giovanni Impastato, per le sue dichiarazioni a tutela della memoria del fratello, "costantemente infangata dal difensore di Badalamenti nel corso del processo conclusosi con la condanna all'ergastolo dell'imputato, si inscrive in una prassi che vede l'uso della giustizia civile come il terreno privilegiato per operare rivalse e ritorsioni", mentre, come dimostra l'assoluzione dello storico Giuseppe Casarrubea nel processo penale in seguito a querela dell'ex capitano Giallombardo "Il giudizio penale si svolge con dibattimento pubblico che offre maggiori possibilità di approfondimento e di confronto".

Al di la' del merito della specifica vicenda, come ricordato piu' volte in questo sito va considerato infatti anche che nel giudizio penale la presenza del PM assicura la possibilita' di effettuare indagini penali sullo stesso querelante, ed e' uno dei motivi per cui questa strada viene esclusa in moltissimi casi di presunta diffamazione, mentre gli onerosi risarcimenti richiesti (e spesso comminati) in sede civile, ma anche soltanto la minaccia di questi, garantiscono una pressione fortissima su giornalisti, scrittori e piccole testate che, al di la' della convinzione di star bene operando non sarebbero in grado di farvi fronte.

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