NEW del 05 maggio 2005

 
     

Intoccabili, stralcio del nuovo libro di S. Lodato e M. Travaglio
di red

(parte prima)

Anche sull'uso dei pentiti, il metodo Falcone e il metodo Caselli coincidono. Basta leggere il mandato di cattura spiccato nel 1984 per i cugini Nino e Ignazio Salvo dopo le rivelazioni di Buscetta. Il pentito aveva raccontato che gli esattori erano "uomini d'onore" e che lo avevano ospitato nella loro villa di Santa Flavia. Quali riscontri trovarono i giudici del pool alle sue parole? Si fecero descrivere gli ambienti della villa, poi andarono a verificare sul posto se quella descrizione corrispondeva alla realtà. Corrispondeva. Così i Salvo finirono in carcere. Lo stesso metodo fu seguito, spesso con maggiore dovizia di riscontri, dalla Procura di Caselli per verificare le accuse dei pentiti nei vari processi, più o meno eccellenti, celebrati fra il 1993 e il 1999.

E ancora, basta scorrere le ordinanze di rinvio a giudizio e le sentenze dei tre maxiprocessi, per rendersi conto che la "convergenza del molteplice" - cioè il valore probatorio delle dichiarazioni incrociate di più pentiti, riconosciuto dall'articolo 192 del codice di procedura penale - stava già alla base delle indagini del vecchio pool (che infatti venne accusato di "abuso" dei pentiti, proprio come il nuovo pool). Gli imputati dei tre maxiprocessi furono condannati su elementi almeno altrettanto (se non meno) consistenti di quelli che hanno portato a certe assoluzioni nell'èra Caselli. Il che si spiega, appunto, con quel progressivo "innalzamento della soglia probatoria" che chi vuole giudicare in buona fede non può non notare, confrontando le sentenze degli anni Ottanta con quelle degli anni Novanta.

Come ha scritto Antonio Ingroia: Con il massimo rispetto delle sentenze, siano esse di condanna o di assoluzione, va ricordato che non pochi studiosi, storici e giuristi, hanno da tempo evidenziato che è un dato ricorrente nella storia della magistratura che le oscillazioni degli orientamenti, soprattutto in tema di valutazione della prova, e specialmente nei processi di mafia, non sono mai state del tutto immuni dal mutamento degli orientamenti politico-culturali dominanti in un dato momento storico. La stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove degli anni 60-70 si inseriva nel clima di lassismo nei confronti della mafia prevalente in quegli anni.

La stagione dei maxiprocessi fu anche il frutto della reazione statale alla sequela degli omicidi eccellenti a cavallo fra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. Subentrò una nuova fase di stanca e di "stallo" sul fronte giudiziario, quel "calo di tensione" a più riprese denunciato da Falcone e Borsellino. Oggi si ha spesso la sensazione di assistere ad uno spettacolo già visto. E allora la domanda da porsi è questa: non è quantomai singolare che gli orientamenti politico-culturali prevalenti e, conseguentemente, gli indirizzi giurisprudenziali mutino a seconda che la stagione, nella quale essi maturano, sia quella in cui si processano imputati appartenenti alla mafia militare o soggetti appartenenti al ceto dirigente del paese? Quale giustizia è quella che sottopone cittadini appartenenti a classi sociali diverse a differenti criteri di valutazione della prova?

Un solo esempio, fra i mille possibili. Nell'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del "maxi-uno", Falcone e Borsellino scrivono: Le rivelazioni di Buscetta e di Contorno si integrano e completano a vicenda, provenendo da personaggi che hanno vissuto esperienze di mafia da diversi punti di osservazione. Avendo due soli pentiti a disposizione, bastava l'incrocio fra le dichiarazioni dell'uno e dell'altro per riscontrarle entrambe. E tanto bastò ai giudici per condannare centinaia di mafiosi a pene molto pesanti, anche all'ergastolo. Anche quando i pentiti raccontavano notizie di seconda mano (de relato).

Sono ancora Falcone e Borsellino a scrivere, nel ricorso contro la scarcerazione di un presunto mafioso chiamato in causa da Totuccio Contorno: Se un uomo d'onore apprende da un altro consociato che un terzo è un uomo d'onore, quella è la verità. Non importa conoscere fisicamente l'uomo d'onore. Il giudice diede loro ragione e il presunto mafioso fu riarrestato qualche tempo dopo, in compagnia di un latitante. Il pool commentò: L'episodio costituisce la più chiara dimostrazione del grado di attendibilità di Contorno e dovrebbe indurre a rifuggire da quell'aprioristico atteggiamento di generalizzata svalutazione delle chiamate in correità da parte dei pentiti in mancanza di altri riscontri. Parole che, a ripeterle oggi, un magistrato rischia il procedimento disciplinare, con l'accusa di "giustizialismo" assicurata.

I conti tornano

Prima di addentrarci nei grandi processi dell'èra Caselli, facciamo un po' di conti per stilare un bilancio attendibile di quella stagione. In quei sei anni e mezzo, dal gennaio 1993 all'estate 1999, la Procura di Palermo ha sequestrato beni mafiosi per un valore di oltre diecimila miliardi di lire. Ha sventato decine di attentati e omicidi; sequestrato un numero impressionante di arsenali con armi da guerra di ogni tipo, missili compresi; indagato 89.655 persone, di cui 8.826 per fatti di mafia (un decimo del totale, con buona pace di chi sostiene che furono trascurati gli altri delitti). I rinviati a giudizio sono stati in tutto 23.850, di cui 3.238 per mafia.

Impossibile stilare una statistica esaustiva delle sentenze nei vari gradi di giudizio: soltanto gli ergastoli, nei processi avviati in quella stagione, sono stati 647. A questi vanno aggiunte svariate centinaia di condanne a pene inferiori, da 30 anni di reclusione in giù. A volte più condanne hanno colpito la stessa persona, quindi il numero dei condannati è inferiore a quello delle condanne. Ma è comunque altissimo: il più alto mai registrato nella storia di Palermo.

Così come quello dei mafiosi, latitanti e non, catturati dalle forze dell'ordine coordinate dalla Procura, soprattutto dal pm Alfonso Sabella. La lista comprende il gotha di Cosa Nostra (con l'eccezione dei soli Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro) e include tutti gli autori delle stragi del 1992 e '93, poi processati a Caltanissetta e Firenze.

A cominciare da Santino Di Matteo, che nella notte fra il 23 e il 24 ottobre 1993 inizia a collaborare davanti a Caselli, in una stanza della Dia a Roma, e in un lunghissimo interrogatorio squarcia per la prima volta il velo sulla strage di Capaci, alla quale ha personalmente partecipato (prima ne aveva parlato soltanto, de relato, Pino Marchese), facendo decollare l'inchiesta di Caltanissetta. Pagherà un prezzo altissimo: il sequestro e l'assassinio del figlio Giuseppe, strangolato e sciolto nell'acido.

L'elenco delle catture eccellenti fa impressione, e ancor di più ne fa l'oblio interessato che le ha fatte dimenticare: Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale, Mariano Tullio Troia, Carlo Greco, Nino Gioè, Gioacchino La Barbera, Balduccio Di Maggio, Santino Di Matteo, Salvatore Biondino, Vincenzo Sinacori, Filippo e Giuseppe Graviano, Raffaele Ganci con i figli Domenico e Calogero, Giuseppe e Gregorio Agrigento, Francesco Paolo Anzelmo, Mico Farinella, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Fifetto Cannella, Pino Guastella, Nicola Di Trapani, Salvatore Cucuzza, Giovanni Buscemi e tanti altri.

Scorrendo quei nomi, un tempo terrore della Sicilia, ben si comprende perché si parlò per qualche anno di "fine del mito dell'inafferrabilità e dell'immunità di Cosa Nostra". Perché alla Procura si ebbe la breve, ma netta sensazione di poter vincere la guerra. E perché tanti mafiosi scelsero di collaborare con lo Stato. Lo Stato, in quel momento, appariva più forte di Cosa Nostra. Poi le acque del Mar Rosso violentemente si richiusero. E cominciò il triste, inesorabile, eterno riflusso.

Intoccabili
di Marco Travaglio e Saverio Lodato
Edizioni Bur
pagg. 200, euro 10,00


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