NOTIZIARIO del 10 febbraio 2005

 
     

Cassazione : diffamare avversario politico non rientra in immunità
sentenza

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.1600/2005 2/12/2004 (Presidente: R. Teresi; Relatore: P. Mocali)

Con sentenza del 3/11/1994, l’allora pretore di Milano dichiarava il deputato Umberto Bossi colpevole di diffamazione aggravata, per le espressione da lui rivolte in danno del deputato Fernando Dalla Chiesa, in occasione di un comizio tenuto nel corso della campagna elettorale per le elezioni amministrative di quel comune, condannandolo alla pena di £ 2 milioni di multa, oltre alle pronunce accessorie. Su gravame dell’imputato, la corte d’appello milanese, ricevuto il parere positivo della Camera dei deputati circa la riferibilità della condotta tenuta dal B. alla sua qualità di parlamentare, colla conseguente copertura guarentigia apprestata dall’art. 68 Cost. [1], sollevava conflitto di attribuzione, che la Corte Costituzionale dichiarava improcedibile per vizio di forma; pertanto, con sentenza dell’11/3/1999, il giudice di secondo grado dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato.

Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione la parte civile D.C. e questa Corte, con sentenza del 27/4/2000, l’annullava con rinvio, sia per la ritenuta erroneità di una impossibile riproposizione del conflitto di attribuzione, sia per accertamenti sul fatto- reato. Il giudice di rinvio, individuato in altra sezione della corte di appello di Milano, colla sentenza oggi esaminata, dichiarava l’improcedibilità dell’azione penale, ai sensi dell’art. 68 Cost. Si legge in quella sentenza che un nuovo conflitto di attribuzione era stato dichiarato inammissibile, sempre per ragioni formali, dalla Corte Costituzionale, con la decisione n. 237/2000; una riproposizione del conflitto, già deliberata dalla corte di rinvio, era stata revocata alla luce sia dell’entrata in vigore della legge n. 140/2003, sia della sentenza n. 116/2003 della stessa Cote Costituzionale, interpretabile nel senso che la declaratoria di inammissibilità precludeva la risollevazione del conflitto di attribuzione.

Il giudice di rinvio riteneva di certo diffamatorie le frasi pacificamente pronunciate dal B. nei confronti del D. C., ma la prospettiva di giudizio sul nesso tra le medesime e la funzione parlamentare dell’imputato, aspetto sul quale la decisione di annullamento si era espressamente soffermata, era stata radicalmente mutata dalla legge n. 140/2003 sopra citata, già passata indenne al vaglio di costituzionalità per il profilo qui rilevante (sentenza n. 120/2004) e che esplicitava il contenuto dell’art. 68 Cost., specificandone l’applicabilità non solo agli atti tipici della funzione parlamentare, ma anche a quelli atipici, ma comunque ad essa funzionali, secondo il suo art. 3. Alla luce di tal normativa, la condotta tenuta dall’imputato in occasione del comizio elettorale era da valutarsi come pertinente, sia pure non tipicamente, alla funzione parlamentare, in quanto mirata ad una contrapposizione partitica, con svalutazione della persona del deputato avversario, in diretta correlazione alle esigenze della sfida elettorale.

Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione, a mezzo del suo difensore, la parte civile D. C., che denunciava: col primo motivo di ricorso, violazione di legge. Errata era l’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 140/2003, la quale, non innovando sostanzialmente la disciplina della guarentigia costituzionale a favore dei membri del parlamento, ribadiva la tutela non dell’attività politica in senso lato, ma di quella parlamentare in senso proprio, non intendendo evidentemente garantire che la mera qualifica di parlamentare costituisse una sorta di immunità assoluta, alla stregua, del resto, della esegesi giurisprudenziale sia di legittimità che costituzionale, in precedenza formatasi anche a livello europeo. Ne deriva che insultare un deputato non è attività parlamentare (nemmeno atipica) neppure se soggetto attivo sia colui che ricopre analoga veste; e solo in tal senso la sentenza costituzionale n. 120/2004 aveva affermato la legittimità dell’art. 3 della legge n. 140/2003, rilevando che esso non innovava la precedente disposizione dell’art. 68 Cost., esplicitandone invece il contenuto nel senso di ricomprendere sia gli atti di funzione tipici, sia quelli atipici, ma comunque connessi alla funzione parlamentare e sia pure prescindendo da ogni criterio di localizzazione. Con la conseguenza che non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari; situazione che non ricorreva nel caso in esame; col secondo e terzo motivo, vizio della motivazione e violazione di legge. Erroneamente argomentata era la revoca dell’ordinanza con cui il giudice del rinvio aveva sollevato conflitto di attribuzione.

Nelle precedenti occasioni, la Corte Costituzionale non era entrata nel merito, rilevando preliminari ragioni di improcedibilità, attinenti a vizi formali; in sede di annullamento, il giudice di legittimità aveva affermato l’erroneità dell’opinione di una non riproponibilità di un conflitto, qualora non vi sia stata decisione sostanziale; la sentenza n. 116/2003 della Corte Costituzionale, che sembrava rinnegare, diversamente argomentando, il precedente ordinamento, negava il diritto del cittadino ad una pronuncia giudicale, garantito anche dall’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e, in ogni caso, non poteva estendersi al di la del caso deciso, non avendo espresso un giudizio di costituzionalità ma di semplice ammissibilità del conflitto di attribuzione che si chiede a questa Corte di nuovamente sollevare. Osserva la Corte che l’illecito ascritto al deputato B. è ormai certo, essendo coperta dal giudicato interno l’oggettività del fatto, la sua indubbia valenza diffamatoria, l’aspetto soggettivo della condotta; quel che resta da decidere è se, in presenza della guarentigia costituzionale offertagli dalla Camera con deliberazione del 31/1/1996, restino aperti spazi per la perseguibilità del reato.

La sentenza impugnata ha anzitutto affermato che le disposizioni della legge n. 140/2003, e in particolare li comma 1 dell’art. 3, innovando la disciplina applicativa dell’art. 68 Cost., avrebbe esteso la tutela dei parlamentari non solo agli atti tipici del suo mandato, ma anche a quelli atipici, in particolare se compiuti extra moenia, con la conseguente immunità in ordine al fatto in esame, che rientra in tale categoria. La tesi non appare condivisibile e correttamente la confuta il ricorrente, col primo motivo di ricorso. È stata proprio la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 120/2004, che pure non ha giudicato illegittimo tale articolo, se correttamente interpretato, a confermare che la norma richiamata dal giudice a quo non ha innovato la sostanza della tutela accordata al parlamentare, ribadendo invece il principio che, nella voluntas legis, tutte le attività del parlamentare stesso debbono essere connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri del Parlamento, giusta il contenuto dell’art. 68 Cost. che la legge n. 140, secondo la Consulta, esplicita ma non amplia arbitrariamente.

E quindi, conformemente alla consolidata giurisprudenza costituzionale, cui si è aggiunta quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, ciò che dovrebbe accertarsi, ai fini della concessione di immunità, è il chiaro legame funzionale fra l’opinione espressa o gli atti compiuti e l’esercizio di funzioni parlamentari; giacché, ammonisce il giudice delle leggi, no qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni. Ed invero, la prerogativa dell’insindacabilità non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera qualità di parlamentare; e questo spiega perché la giurisprudenza della Corte Costituzionale si è sviluppata e consolidata sulla nozione del cosiddetto nesso funzionale, che solo consente di discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti della libertà di espressione, da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare.

Ciò che dunque rileva, ai fini dell’insindacabilità, è il collegamento necessario con le funzioni del Parlamento, cioè l’ambito funzionale entro cui l’atto si iscrive, a prescindere dal suo contenuto comunicativo, che può essere il più vario, ma che in ogni caso deve essere tale da rappresentare l’esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere, anche se non in forma tipiche ed anche extra moenia. Ciò posto, e stabilito infine che la guarentigia costituzionale non copre il parlamentare personalmente, ma la sua attività funzionalmente connessa a quella del Parlamento, deve rilevarsi che la sentenza impugnata erra laddove individua nella competizione partitica, tesa anche alla svalutazione della persona dell’avversario, il legittimo esercizio dell’attività parlamentare; non si coglie, invero, quale collegamento funzionale ricorra fra le grevi espressioni indirizzate dal deputato B. all’attuale ricorrente (non tanto come politico, ma come persona anche in rapporto all’ambito familiare) e l’attività del parlamentare, anche in circostanze, come il comizio per le elezioni amministrative, non tipicamente riconducibili all’ambito regolamentare. Che, dunque, le frasi indubbiamente diffamatorie fossero pronunciate da soggetto rivestito della qualità di deputato non basta per affermare l’esistenza di un nesso funzionale fra la condotta e le attività (tipiche o non tipiche) del Parlamento.

Le considerazioni fin qui svolte non consentono, tuttavia, di modificare la pronuncia impugnata, ostando pur sempre alla perseguibilità del fatto la deliberazione della Camera sopra ricordata e che sarebbe superabile unicamente col conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale, che infatti il ricorrente insiste nel chiedere. Al riguardo, il procedimento in esame ha già visto il giudice di merito sfortunatamente impegnato in tal senso, con due ricorsi dichiarati entrambi inammissibili dalla Consulta, per ragioni formali. Si pone, dunque, il problema della riproponibilità del conflitto da parte di questa Corte; problema che deve essere negativamente risolto, così come ha fatto il giudice di rinvio. È noto invero che, con la sentenza n. 116 del 2003, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la riproposizione di un conflitto, preceduto da altro già incorso in tale sanzione per ragioni formali, come nella fattispecie. Osserva, in proposito, l’attuale ricorrente che si tratterebbe di una decisione che non si richiama valutazioni del merito del conflitto stesso e che non estenderebbe la sua efficacia al di la del caso deciso; ma le argomentazioni di detta sentenza non consentono tale conclusione.

La Corte Costituzionale, invero, argomentando al di la del casus decisus, afferma che la legge 87/1953, per quanto non abbia posto termini di decadenza per la proposizione del ricorso col quale il conflitto di attribuzione viene rilevato (volendo favorire al massimo la ricerca e la conclusione di intese extragiudiziarie tra gli organi interessati al conflitto, al di fuori delle strettoie di tali termini), tuttavia formalizza una fase di ammissibilità del conflitto, che risponde all’esigenza di delimitare il più possibile questo tipo di processo, che ha aspetti assolutamente peculiari. Il legislatore del 1953 ha quindi conferito alla Corte Costituzionale, in sede di delibazione sull’esistenza della materia di un conflitto, un potere molto ampio di individuazione dei profili soggettivi e di qualificazione del thema decidendum, cioè un potere di conformazione del giudizio sul conflitto di attribuzione, che si esprime attraverso la fissazione di regole che necessariamente ne definiscono la materia, stabilendo inderogabilmente soggetti e termini per lo svolgimento del processo.

Regole che, per la loro natura conformativa, non possono essere eluse quando il conflitto sia stato sollevato in sede processuale, neppure invocando, ai fini di una eventuale riproposizione del ricorso già dichiarato inammissibile, la mancata previsione di termini di decadenza, che atterrebbero comunque alla fase anteriore alla proposizione del ricorso: sussiste, invero, l’esigenza costituzionale che il giudizio, una volta instaurato, sia concluso in termini certi, non rimessi alle parti configgenti. Va dunque superata la situazione di conflittualità ed incertezza, che non si attaglia alle questioni di equilibrio tra i poteri dello Stato, le quali invece, attendono alle definitività di rapporti, al fine di assicurare il regolare esercizio delle funzioni costituzionali. Si tratta, come è evidente, di affermazioni che, al di la della fattispecie in allora esaminata, pongono limiti di carattere generale, che rendono impensabile la riproposizione di un terzo conflitto di attribuzione. Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con le ulteriori statuizioni indicate nel dispositivo.

PQM Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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