NOTIZIARIO del 26 ottobre 2004

 
     

Liberta' di opinione del magistrato : il CSM assolve

CSM, Sentenza del 5.3.2004/15.9.2004 n. 20/2004 Reg. dep. - Presidente Rognoni - Estensore Salmè.

Doveri del magistrato - Correttezza - Riserbo - Dichiarazioni alla stampa - Diritto di manifestazione del pensiero - Limiti -

Illecito disciplinare - Insussistenza.

Non costituisce illecito disciplinare la condotta del magistrato che rilasci alla stampa dichiarazioni, aventi ad oggetto temi di ordine istituzionale e politico generale, che si inquadrino nel diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e rispettino il limite rappresentato dalla necessità del bilanciamento di tale diritto con l'esigenza di tutela di altri beni costituzionalmente protetti, quali i diritti e le libertà altrui o i valori di imparzialità ed indipendenza. i n c o l p a t o della violazione dell'art. 18 R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, "violato la norma di cui all'art. 18 del R.D.Lgs. 31.5.1946, n. 511, precipuamente mancando ai doveri di riserbo e di correttezza, non ottemperando, altresì, alle prescrizioni dettate dall'art. 6, ult. comma, del codice etico dei magistrati, in materia di rapporti con la stampa, ed alle regole fissate dal C.S.M. con delibera in data 18.4.90, 19.5.93 e 1°.12.94; in particolare, rilasciava dichiarazioni che venivano pubblicate il 20.1.2003, virgolettate, dal quotidiano "Repubblica", in un articolo dal titolo: "XXXXX II, il ritorno alla politica" - sottotitolo: "il mio impegno? E' l'ora di tirare via questa brutta gente", da intendersi nel presente atto integralmente trascritto; specificamente dichiarava, tra l'altro: " ...Adesso andrò in giro, se è utile, a ripetere che bisogna essere cittadini e non sudditi, che bisogna mandar via questa brutta gente..." - "...Ho detto che questo squallido, pessimo governo sta distruggendo la struttura stessa del Paese, la sua immagine, il suo futuro. Ho detto che non è solo un problema delle leggi che producono - la Cirami, il falso in bilancio, le rogatorie - ma che, mentre votano questi provvedimenti, non fanno tutto ciò che invece andrebbe fatto..." - "...Adesso tiriamo via questa brutta gente: è un impegno che ho preso, non mi sembra poco...".

Inoltre, nella relazione 31.1.2003 (indirizzata al Presidente della Corte d'Appello, a seguito di richiesta di questo Ministero), riferendosi, anche, a persone e fatti di cui non si faceva cenno nell'articolo in questione, dichiarava testualmente: "...In risposta alla richiesta del Ministero della Giustizia, ... confermo di aver espresso ferme critiche al governo in tema di giustizia, di atteggiamenti verso la magistratura e di rapporto (i) tra i poteri dello Stato. La Repubblica ha riportato le mie opinioni in termini sostanzialmente corretti, anche se a tratti con sintesi alquanto sommaria, come là dove non riferisce argomenti e giudizi critici più ampiamente motivati, e specialmente rivolti alla arroganza e alla manchevolezza etica del presidente del consiglio e dei suoi più intimi collaboratori di fronte alla Giustizia; quali si sono poi nuovamente manifestate anche nei riguardi della decisione della Suprema Corte di Cassazione, tacciata sprezzantemente come parte di una magistratura politicizzata...". Con dette espressioni rivolgendo apodittiche critiche e gravi offese all'operato dell'attuale Governo e del Presidente del Consiglio in carica, in guisa da rendersi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, così compromettendo il prestigio dell'Ordine Giudiziario.

Svolgimento del procedimento

Con interpellanza del 21 marzo 2003 l'on …………….. e altri parlamentari, con riferimento a un'intervista rilasciata il 20 gennaio 2003 dal dott. XXXXX, consigliere della corte d'appello di ********, al quotidiano " Repubblica" e pubblicata con il titolo: "XXXXX II, il ritorno alla politica" e sottotitolo: "Il mio impegno? E' l'ora di tirare via questa brutta gente", hanno chiesto al Ministro della giustizia se non ritenesse "conflittuale e pertanto inaccettabile il ruolo di un amministratore di giustizia che muove critiche a quelle stesse leggi che è tenuto ad applicare, e, in caso affermativo" se non intendeva "promuovere l'azione disciplinare nei confronti del dottor XXXXX." Il Ministro ha promosso l'azione disciplinare, in data 12 febbraio 2003, contestando al dott. XXXXX l'illecito disciplinare in epigrafe trascritto, anche in relazione a quanto dallo stesso dichiarato in una nota in data 31 gennaio 2003, diretta al presidente della corte d'appello di °°°°°°°°° che, su sollecitazione del Ministro stesso, lo aveva interpellato in merito all'intervista predetta. Interrogato il 28 aprile 2003 dal procuratore generale presso la corte di cassazione, il dott. XXXXX ha dichiarato che nell'intervista telefonica aveva voluto esprimere, come cittadino, il proprio dissenso dalla classe politica che aveva espresso il Governo e che l'espressione "brutta gente" costituiva una definizione politica con la quale voleva esprimere in modo icastico il suo forte dissenso, ritenendo in conseguenza doveroso, sempre quale cittadino elettore, di indicare come obbiettivo di impegno politico la sostituzione, con metodo democratico, di quella classe dirigente.

Come magistrato, inoltre, aveva ritenuto corretto contrastare con la propria manifestazione di pensiero l'accusa rivolta alla magistratura di essere persecutrice dei cittadini. L'incolpato, con riferimento alla sua nota al presidente della corte d'appello, ha infine sottolineato che il titolo dell'articolo che riportava la sua intervista non era a lui attribuibile. Il dott. XXXXX ha chiesto altresì di allegare all'interrogatorio una lettera di smentita inviata il 2 marzo 2003 al quotidiano "-------", relativa a dichiarazioni sulla presente vicenda disciplinare, riportate in modo a suo avviso non completamente fedele, e una sua nota al procuratore generale con la quale, oltre a ribadire quanto dichiarato in sede di interrogatorio ha anche precisato, tra l'altro, che le sue critiche non erano e non volevano essere offensive, che erano sempre argomentate e motivate e che aveva voluto difendere, per la piccola parte che gli competeva, il prestigio dell'ordine giudiziario dalle gravi offese rivolte. In esito all'istruttoria il procuratore generale ha chiesto la fissazione dell'udienza di discussione.

Motivi della decisione

1. La sezione disciplinare ritiene che le espressioni riportate nel capo d'incolpazione costituiscono esercizio del diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero e che le predette espressioni non abbiano superato i limiti che la giurisprudenza disciplinare ha individuato per l'esercizio di tale diritto da parte dei magistrati. L'esame dei profili di illiceità specificati nel capo d'incolpazione, presuppone, quindi, la ricognizione dei principi che questa sezione e la corte di cassazione, in conformità con l'orientamento espresso dalla corte costituzionale, hanno costantemente affermato in tema di garanzia della libertà di manifestazione del pensiero e di diritto di critica del magistrato (per analoga ricognizione dei principi regolatori della materia, v. anche le sentenze 21 marzo 2003, n. 33 e 11 luglio 2003, n. 76). Con sentenza del 7 maggio 1981, n. 100, la corte costituzionale ha affermato con particolare forza che "Deve riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino" aggiungendo che "deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale." Richiamato poi il principio secondo il quale la libertà di manifestazione del pensiero non è senza limiti "purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e in principi costituzionali espressamente fissati o desumibili dalla Carta costituzionale", la Corte ha individuato come valori costituzionalmente tutelati quelli dell'indipendenza e dell'imparzialità e della tutela della credibilità della funzione giudiziaria (nella quale si concreta la nozione legislativa di "prestigio dell'ordine giudiziario").

La necessità di un equilibrato bilanciamento con altri interessi costituzionalmente tutelati non comprime il diritto del magistrato alla libera manifestazione delle proprie opinioni, ma ne vieta solo l'esercizio anomalo e cioè l'abuso, che si configura quando risultino lesi gli altri valori di rilievo costituzionale sopra menzionati. La Corte ha concluso affermando che: "Dovrà l'organo chiamato a valutare i singoli comportamenti stabilire se essi possano o meno essere riprovati dalla coscienza sociale e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria.". Questi principi sono stati seguiti e ribaditi dalla corte di cassazione che ha costantemente affermato che al magistrato, come a tutti i cittadini, deve essere riconosciuto il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero essendo vietato solo l'esercizio anomalo e l'abuso che si configura quando siano lese situazioni giuridiche non meno rilevanti, come diritti e libertà altrui o i valori di imparzialità e indipendenza (Cass. n. 276/1986, 6179/93, 10618/1998, 105 e 2821999, 5/2201).

Nell'ambito dell'orientamento richiamato si è sempre posta la giurisprudenza di questa sezione, che è opportuno richiamare anche con specifico riferimento alla garanzia della libertà di critica, nei limiti in cui assume rilievo ai fini della presente decisione. Poiché la libertà di manifestazione del pensiero si caratterizza per il fatto di essere controvertibile, di produrre discussione, dissenso, dialettica delle idee (sent. 30 giugno 1989, proc. n. 264) e la tutela di cui all'art. 21 Cost. è posta a salvaguardia proprio delle opinioni sgradite ai più (sent. 29 gennaio 1982, proc. n. 15), si è affermato, innanzi tutto, che non è sindacabile il contenuto delle manifestazioni di pensiero, ma esclusivamente la forma, il tempo e la modalità di estrinsecazione (sent. 23 maggio 1986, proc. n. 430). Pertanto sono lecite anche valutazioni fondate su argomenti discutibili, purché non siano lesi i valori di indipendenza e di imparzialità della giurisdizione (sent. 30 giugno 1989, proc. n. 264) e i giudizi critici attengano a fatti e vicende di rilievo pubblico e, come tali, oggetto di intenso dibattito culturale e politico (sent. 29 ottobre 1982, proc. n. 301; 12 novembre 1982, in proc. n. 376).

Quanto alla forma delle esternazioni si è più volte ritenuto che la critica, sia pure estremamente dura e senza appello o anche ingenerosa e sicuramente inopportuna, è lecita se sia rispettato il dovere di riferire fatti veri e di non ledere l'onorabilità dei singoli o la credibilità della funzione giudiziaria (sent. 29 gennaio 1982, in proc. n. 15; sent. 30 settembre 1982, i proc. n. 59, sent. 29 ottobre 1982, in proc. n. 301 e 12 novembre 1982, in proc. n. 376, già citate; sent. 23 marzo 1984, in proc. n. 1; sent. 18 luglio 1986, in proc. n. 38; sent. 21 giugno 1991, in proc. n. 60; sent. 17 marzo 1995, in proc. n. 17). Deve anche ricordarsi che a volte nella giurisprudenza di questa sezione sono state richiamate a sostegno dei principi affermati le risoluzioni del Consiglio superiore della magistratura del 18 aprile 1990, 19 maggio 1993 e del 1° dicembre 1994, aventi ad oggetto le problematiche poste dalle dichiarazioni alla stampa da parte dei magistrati.

Dopo avere ribadito la necessità di garantire anche al magistrato la libertà di manifestazione del pensiero, il Csm ha sollecitato il senso di autodisciplina e di autocontrollo per assicurare il rispetto di alcuni principi che possono essere così sintetizzati:

  • a) inopportunità di dichiarazioni alla stampa su processi nei quali il magistrato a qualunque titolo sia chiamato a svolgere le proprie funzioni, salvo che non siano imposte da esigenze di chiarezza e trasparenza, e cioé per fornire le necessarie precisazioni, dissipare equivoci o impedire distorsioni;
  • b) cautela e attenzione nel formulare valutazioni, anche critiche, su processi diversi
  • c), fermo il rispetto della verità storica e dell'altrui onorabilità;
  • d) cautela e prudenza nell'informazione dell'opinione pubblica su situazioni di particolare disfunzione o di difficoltà, per evitare interpretazioni inesatte e deformazioni strumentali, previo accertamento che di tali situazioni siano stati già edotti gli organi competenti;
  • e) osservanza del canone di riservatezza di cui all'art. 6 del codice etico adottato dall'Associazione Nazionale Magistrati ai sensi dell'art. 58 bis del d. lgs. n. 29 del 1993 (che invita i magistrati a non sollecitare la pubblicità di notizie attinenti all'attività d'ufficio; a evitare la costituzione di canali informativi privilegiati quando ritengano di fornire alla stampa notizie per garantire la corretta informazione, l'esercizio del diritto di cronaca o per tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini; a usare equilibrio e misura nel rilasciare interviste).

Il capo d'incolpazione attribuisce alle citate risoluzioni la natura di vero e proprio precetto deontologico, la cui violazione darebbe luogo a responsabilità disciplinare. Deve al contrario osservarsi che in relazione alle situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate lo spazio che gli interventi di natura amministrativa possono occupare è molto ristretto perché, come è stato già osservato da questa sezione (sent. 10 giugno 1991, in proc. n. 35), "le circolari e risoluzioni del Csm non possono essere di per sé produttive di limitazioni di diritti costituzionali, quali la libertà di manifestazione del pensiero".

A maggior ragione l'affermazione vale rispetto ad atti del Ministro della giustizia, come ad esempio la nota circolare 20 settembre 1996, sulle dichiarazioni pubbliche dei magistrati, la cui violazione, invece, è stata in alcune fattispecie (non in quella di cui si tratta) contestata come illecito disciplinare. Gli atti amministrativi di cui si tratta sono quindi legittimi nei soli limiti in cui siano ricognitivi di principi che già costituiscono diritto vivente, perché affermati nella giurisprudenza costituzionale, della corte di cassazione o della sezione disciplinare, non potendo mai costituire fonte autonoma di precetti limitativi di libertà costituzionalmente garantite. Alla stregua dei rilievi svolti deve allora ritenersi che l'effettiva portata del richiamo alle risoluzioni del Csm contenuta in alcune sentenze disciplinari, in realtà, è di natura meramente argomentativa, nel senso che tale richiamo è utilizzato solo per confermare indirettamente le conclusioni raggiunte in via diretta nell'individuazione del punto di bilanciamento tra i diversi valori costituzionali in gioco (diritto di libera manifestazione del pensiero, da un lato, e tutela dell'indipendenza, dell'imparzialità e della credibilità della funzione giudiziaria, dall'altro).

A conclusioni analoghe si deve pervenire per quanto riguarda la rilevanza, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare, del "codice etico", la cui violazione nel capo d'incolpazione è configurata come fonte di responsabilità disciplinare. Infatti, il precetto "etico-professionale" e il precetto giuridico sono ontologicamente diversi per funzione e natura e pertanto, anche quando il piano "etico" e quello giuridico-disciplinare si intersecano, non sussiste necessaria coincidenza tra i due tipi di norme. In alcune fattispecie la violazione del codice etico può costituire l'indice o il riscontro di una violazione di regole "disciplinari" (si pensi ai precetti del "codice etico" in materia di indipendenza, imparzialità e correttezza), ma in altre la violazione delle norme etiche si pone al di sotto della soglia dell'illecito disciplinare (come quando si prescrivono comportamenti di disponibilità nei confronti degli utenti o obblighi di aggiornamento professionale e di oculata utilizzazione delle risorse o l'obbligo del dirigente di sollecitazione del parere del personale amministrativo e degli avvocati e degli stessi magistrati sulle questioni d'ufficio).

La sanzione disciplinare è giustificata dalla violazione, per così dire, del "minimo etico", mentre il precetto etico-professionale indica agli associati obbiettivi che comportano la tensione verso i livelli più elevati, appunto, di etica professionale. La violazione delle prescrizioni dettate dall'art. 6, ultimo comma, del codice etico dei magistrati approvato dall'ANM e dei principi indicati con le delibere del Csm del 18 aprile 1990, 19 maggio 1993 e 1°dicembre 1994 in materia di rapporti dei magistrati con la stampa, contestata con il capo d'incolpazione, pertanto, non può, in quanto tale, ritenersi sussistente, ma può essere valutata solo come richiamo a previsioni che costituiscono riprova e conferma (e solo nei limiti in cui costituiscano riprova e conferma) dell'esistenza dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati individuati dalla giurisprudenza disciplinare, in conformità con gli insegnamenti della Corte costituzionale.

2. In punto di fatto, la sezione disciplinare rileva innanzi tutto che le parti dell'intervista riportate nel capo d'incolpazione sono state estrapolate da un testo ben più ampio contente dichiarazioni che il dottor XXXXX, già sindaco di ********, ha reso in risposta a domande che il giornalista gli ha rivolto con l'intento, reso evidente dal titolo "XXXXX 2, il ritorno alla politica", di verificare se la partecipazione dell'incolpato a un pubblico dibattito svoltosi qualche giorno prima - dibattito al quale aveva partecipato anche Sergio Cofferati e che aveva suscitato entusiastico consenso del folto pubblico presente - dovesse intendersi come manifestazione del suo intento di tornare a svolgere attività politica. Nel corso dell'intervista l'incolpato ha più volte negato di avere questa intenzione, anche se ovviamente ha manifestato soddisfazione per l'apprezzamento avuto dalle sue parole. In particolare, riassumendo il contenuto dell'intervento pubblico di alcuni giorni prima, ha dichiarato, prima di esprimere le sue valutazioni sull'attività del governo in carica con le espressioni riportate nel capo d'incolpazione, "Ho detto che lo Stato di diritto è lo strumento fondamentale per far crescere il Paese. Ho detto che i temi della politica sono il riequilibrio del mondo, il rapporto Nord-Sud, come si regola il lavoro."

Quanto alla nota indirizzata al presidente della corte d'appello, deve osservarsi che non contiene direttamente valutazioni dell'attività di Governo o dell'operato del presidente del Consiglio, limitandosi ad accennare a giudizi e valutazioni che sarebbero state manifestate all'intervistatore e che questi per eccesso di sintesi non avrebbe riportato.

3. Quanto al merito delle contestazioni disciplinari, deve innanzi tutto escludersi che nel rendere le dichiarazioni alla stampa il dottor XXXXX abbia violato il dovere di riserbo. Nella giurisprudenza disciplinare, e nelle stesse previsioni delle risoluzioni consiliari e dell'art. 6 del codice etico dell'ANM richiamate nel capo d'incolpazione, il dovere di riserbo del magistrato si riferisce alla necessità di rispettare il segreto d'ufficio e di evitare pubblicità sulle notizie attinenti la propria o l'altrui attività, specialmente con riguardo ai procedimenti in corso, salvo che sia necessario fornire all'opinione pubblica una corretta informazione, anche per tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini. Ora è evidente che nell'intervista non v'è alcun riferimento a procedimenti trattati dall'incolpato o dall'ufficio al quale egli appartiene, né ad altre vicende giudiziarie in corso, avendo il dottor XXXXX affrontato solo temi di ordine istituzionale e politico generale. Per dovere di completezza è opportuno tuttavia farsi carico di una possibile interpretazione del capo d'incolpazione sulla base della quale il riferimento diretto all'intervista non escluderebbe un'indiretta rilevanza, ai fini dell'adempimento del dovere di riserbo, della partecipazione al dibattito pubblico a ……., oggetto principale dell'intervista stessa. Ma anche di fronte a tale interpretazione deve obbiettarsi che, alla stregua del principio secondo cui "i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino" (Corte cost. n. 100/1981), al magistrato deve riconoscersi il diritto di partecipare alla vita politica, sia pure con il limite rappresentato dalla necessità del bilanciamento di tale diritto con l'esigenza di tutela di altri beni costituzionalmente protetti, come il buon andamento della giustizia e il prestigio dell'ordine giudiziario (così, Corte cost. sent, 26 ottobre 1982, n. 172).

Deve peraltro osservarsi che l'individuazione di tali limiti, diretti ad evitare che la partecipazione politica possa condizionare l'esercizio delle funzioni giudiziarie (ma che, comunque, sono meno rigorosi di quelli che il diritto di parola del magistrato incontra quando interviene per ragioni connesse all'esercizio della sua funzione) non attiene alla problematica dell'osservanza del dovere di riserbo, della quale ora si tratta, ma solo a quella dell'adempimento del dovere di correttezza che sarà affrontata in prosieguo. Non appare inutile, a proposito del riconoscimento del diritto costituzionale di partecipazione alla vita politica, ricordare che si tratta di uno dei tratti essenziali che ha storicamente connotato la rinascita della vita democratica nel nostro paese dopo la parentesi del fascismo. E' noto infatti che con circolare del 6 giugno 1944, n. 285, confermata con la circolare 18 agosto 1945, il Ministro della giustizia abolì espressamente il divieto di pubblica professione di fede politica in precedenza imposto anche al personale della magistratura e degli uffici giudiziari, ritenendo che "la partecipazione alla vita politica sia un dovere civico" e che "sarebbe per i funzionari dell'ordine giudiziario un privilegio odioso il contrastare loro l'adempimento di questo dovere, limitando a priori nei loro riguardi l'esercizio dei diritti politici al semplice atto del dare il proprio voto nelle elezioni." E facendosi carico dell'esigenza di tutela dell'indipendenza della magistratura la stessa circolare affermò che: "se moventi diversi da quello del compimento del dovere potessero influire sulle pronunzie dei magistrati italiani, non basterebbe impedire loro l'iscrizione ai partiti perché, dentro e fuori di questi, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci quanto più nascoste."

Del pari sono significative le vicende successive, a partire dalla genesi del terzo comma dell'art. 98 Cost., che fu il risultato di una duplice modifica del testo licenziato dalla seconda sottocommissione dell'assemblea costituente, la quale aveva proposto solo il divieto di iscrizione ai partiti per i magistrati. Come è noto, l'assemblea, invece, non solo trasformò il divieto immediatamente precettivo nella previsione della possibilità che il legislatore ordinario valutasse in futuro l'opportunità di introdurre limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti, ma inserì accanto ai magistrati altre tre categorie di pubblici impiegati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia e i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero. Né può essere privo di rilievo la circostanza che fino ad oggi il legislatore ha ritenuto che non sussistono le condizioni per introdurre quel divieto.

Infatti, successivamente all'entrata in vigore della Costituzione mentre il legislatore ordinario ha previsto limitazione alla partecipazione alla vita politica per le forze di polizia e i militari in servizio (con l'art. 6 della legge 11 luglio 1978, n. 382, è stato introdotto il divieto, in particolari circostanze, per i militari di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche; con l'art. 114 della legge 1° aprile 1981, n. 121, sull'ordinamento della pubblica sicurezza, è stato introdotto, ma in via transitoria, il divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti ai corpi di polizia), nulla ha previsto per le altre categorie di pubblici impiegati di cui al terzo comma dell'art. 98 Cost. Tutte le iniziative legislative, parlamentari e governative, dirette a introdurre il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, a partire dall'epoca immediatamente successiva all'entrata in vigore della Costituzione, non hanno avuto l'approvazione del Parlamento, che, evidentemente non ha ritenuto che esistessero le necessarie condizioni storico-politiche, e anche la norma del decreto legge 3 maggio 1991, n. 141, che aveva introdotto il divieto per tutte le quattro categorie di pubblici impiegati, ha avuto breve vita perché il decreto legge non fu convertito.

Deve, infine, rilevarsi che, se la mancata introduzione di limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici, che pure non potrebbero mai arrivare a sancire una totale "sterilizzazione" politica della magistratura, costituisce una rilevante conferma, a maiori, dell'esistenza del diritto dei magistrati alla partecipazione alla vita politica, tale diritto andrebbe riconosciuto anche in presenza delle predette limitazioni, perché la politica di cui si tratta è "la politica delle idee" che, come tale non può mai porsi in contrasto con il dovere di imparzialità, che esige l'estraneità ed equidistanza del magistrato dalle parti processuali e dagli interessi in gioco, ma non anche un'impossibile indifferenza ai valori o una irrealistica neutralità culturale. 3. Al dott. XXXXX è contestata anche la violazione del dovere di correttezza per avere rivolto, con l'intervista e con la relazione al presidente della corte d'appello, "apodittiche critiche e gravi offese all'operato dell'attuale Governo e del Presidente del consiglio in carica". Per quanto riguarda le critiche rivolte nell'intervista, come risulta dalle espressioni riportate nel capo d'incolpazione, le stesse si sostanziano nell'affermazione secondo la quale l'attività del Governo si sarebbe esaurita nel promuovere l'approvazione di leggi non condivise dall'intervistato ("la Cirami, il falso in bilancio, le rogatorie") mentre sarebbe mancato l'impegno per risolvere i problemi reali del Paese. Ora, la contestazione disciplinare non nega che anche il magistrato possa esprimere valutazioni critiche sull'operato del Governo, perché, come è orientamento giurisprudenziale pacifico, anche di recente confermato (v, sentenza sez. unite 18 gennaio 2001, n. 5) non esiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto "per tutti i titolari di pubbliche funzioni di esprimere opinioni che possano contenere giudizi sull'operato di soggetti ..che rivestano cariche di pubblico rilievo."

Né, come è stato già ricordato, può essere censurato il contenuto della manifestazione del pensiero, che può anche consistere nell'espressione di valutazioni critiche, dure, senza appello, o anche ingenerose e inopportune. Il capo d'incolpazione si incentra sul carattere apodittico delle critiche. L'aggettivo "apodittico", che propriamente indica la qualità di ciò che, essendo evidente di per sé, non ha bisogno di dimostrazione, o, se dimostrato, è logicamente inconfutabile, come di frequente avviene nel linguaggio giudiziario, è usato in una diversa (e certamente impropria) accezione a significare la mancanza di un apparato argomentativo che, sorreggendo i giudizi espressi, ne dovrebbe confermare la natura di manifestazione del pensiero. Ma anche l'accogliere questo uso del termine, non può tuttavia prescindersi dalla caratteristiche del mezzo espressivo utilizzato. Come è stato in altra occasione osservato (sentenza 4 agosto 1999, n. 54) "l'opinione espressa in un'intervista, per quanto possa essere motivata, è priva di quel necessario accurato approfondimento di idee che è, invece, proprio degli apprezzamenti contenuti in un volume o in un articolo..".

Pertanto la sommarietà dell'argomentazione, che certamente contraddistingue l'intervista, non può ritenersi tale da togliere alle espressioni usate la natura di genuina manifestazione del pensiero, anche perché nella specie lo stesso intervistatore affermò espressamente che le parole dell'intervistato costituivano il riassunto delle cose dette in occasione del pubblico dibattito. D'altra parte, nella breve risposta al presidente della corte d'appello di ****** in data 31 gennaio 2003, il dott. XXXXX ha ribadito che le sue opinioni erano state riportate con sintesi "alquanto sommaria, come là dove non riferisce argomenti e giudizi critici più ampiamente motivati…" Per quanto riguarda la richiamata nota del 31 gennaio 2003 deve rilevarsi anche che, come già osservato, in essa non vengono formulati direttamente valutazioni critiche, rispetto alle quali si possa porre un problema di accertamento di "apoditticità", nel significato di cui al capo d'incolpazione, ma si fa riferimento in modo generico a valutazioni critiche del comportamento del presidente del Consiglio e dei suoi più intimi collaboratori che sarebbero state espresse al giornalista e che questi non avrebbe riportato per eccesso di sintesi. 4. L'altra censura mossa all'incolpato riguarda il carattere offensivo delle espressioni usate, anche se il procuratore generale in udienza ha precisato che il dott. XXXXX non avrebbe usato l'intenzione di offendere, ma avrebbe comunque dovuto successivamente smentirle per evitare possibili strumentalizzazioni e, pertanto, la contestazione deve intendersi riferita a un'ipotesi di comportamento colposo. Prima di affrontare il profilo soggettivo è necessario tuttavia valutare se le espressioni indicate nel capo d'incolpazione abbiano oggettivamente carattere offensivo.

A tal fine è necessario mettere le espressioni in rapporto con il contesto generale e specifico. Dal punto di vista generale, deve osservarsi che è pacifico che sia l'intervista che la nota indirizzata al presidente della corte d'appello, che all'intervista si riferisce, hanno riguardo alla partecipazione del dott. XXXXX a un dibattito pubblico di natura politica, in relazione al quale non risulta mossa in modo esplicito alcuna contestazione e, come si è osservato, se una contestazione di tale oggetto dovesse intendersi implicitamente mossa, sarebbe certamente infondata dovendo riconoscersi all'incolpato il diritto di partecipare alla vita politica e non essendo stata contestato che da tale partecipazione sia derivato un condizionamento dell'attività giudiziaria.

Ora, come è stato più volte sottolineato dalla giurisprudenza, anche della corte di cassazione (Cass. sez. V, 24 aprile 2003, Volpe; 15 marzo 2001, Valentini; 13 marzo 2001 Pirelli; 26 novembre 1998, Casanova; 18 marzo 1981, Guarino; nonché Cass., sez. III, 27 giugno 2000, nn. 8734 e 8733) l'attuale fase della vita politica nazionale è caratterizzata dalla trasformazione del linguaggio nel senso di una maggiore aggressività, se non proprio da un generale e progressivo imbarbarimento del costume e del linguaggio politico, che ha portato ad una desensibilizzazione del significato offensivo di certe espressioni e quindi a un ampliamento dei limiti della continenza formale delle critica politica.

Conseguentemente, espressioni dure e pungenti, che in altro contesto generale avrebbero potuto essere considerate offensive, purché non volgari e triviali e comunque attinenti a comportamenti pubblici e politici e non della sfera privata, sono ritenuti scriminati dall'esercizio legittimo del diritto di critica politica. Con riferimento poi allo specifico contesto nel quale sono state utilizzate, deve rilevarsi che le espressioni "brutta gente" e "squallido, pessimo Governo", riassuntive del giudizio politico negativo della maggioranza e del Governo in carica, sono indubbiamente dure, ma, da un lato debbono essere valutate in relazione al mutamento del linguaggio politico sopra evidenziato e, dall'altro, non può ignorarsi il loro collegamento con il pubblico dibattito, il cui contenuto l'intervista intendeva in qualche modo riassumere, nell'ambito del quale certe forme espressive icastiche sono funzionali alla esigenza di efficacia della comunicazione con un pubblico ampio ed eterogeneo.

Quanto poi al giudizio di "manchevolezza etica del presidente del consiglio e dei suoi più intimi collaboratori di fronte alla Giustizia" riportato nella nota al presidente della corte d'appello, deve tenersi presente che il senso effettivo dell'espressione è rappresentato non da un'immotivata e generica accusa di immoralità, ma da una denuncia critica dell'atteggiamento assunto dal presidente del Consiglio e dai suoi difensori, che hanno anche cariche parlamentari, con riguardo a processi nei quali sono stati adottati provvedimenti fatti oggetto di critiche molto aspre e da alcune parti considerate anche denigratorie. Tale denuncia riecheggia cioè un dibattito politico ampiamente diffuso e, se può giustificare qualche ragionevole dubbio di opportunità, non si pone certo al di fuori dei limiti del legittimo esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, in particolare, dell'esercizio del diritto di critica politica. Né può tralasciarsi che la nota rappresentava il primo atto di natura latamente difensiva rispetto a un'iniziativa del Ministro, sollecitata dall'interrogazione parlamentare, che si preannunciava come imminente, in relazione alla richiesta di chiarimenti rivolta all'incolpato tramite il presidente della corte d'appello.

Non può inoltre condividersi l'impostazione del procuratore generale secondo la quale, pur dovendosi escludere il carattere intenzionalmente offensivo delle espressioni usate nell'intervista, l'incolpato avrebbe comunque avuto l'obbligo di smentirle per evitare strumentalizzazioni. Nella nota al presidente della corte d'appello il dottor XXXXX ha dichiarato che il contenuto dell'intervista nella sostanza corrispondeva al suo pensiero e che solo peccava di un eccesso di sintesi. Una smentita, invece, come il dottor XXXXX ben sapeva, presupponeva errori ed omissioni idonei ad incidere sul senso delle dichiarazioni, tanto è vero che quando in un articolo di stampa è stata successivamente riportata una sua posizione in modo lacunoso, tale da autorizzarne una lettura opposta a quella dovuta, egli ha chiesto che venisse fatta una precisazione (v. precisazione riporata su ……. del 2 marzo 2003. Una precisazione che avesse avuto solo la funzione di integrare il contenuto dell'intervista, senza incidere sul senso complessivo, avrebbe avuto invece effetti opposti a quelli che, secondo il procuratore generale, avrebbero dovuto essere perseguiti, avrebbe cioè come suol dirsi, "dato" due volte la notizia. Né può essere sufficiente a integrare l'illecito contestato la circostanza che il dott. XXXXX, anche per la precedente esperienza politica fatta come sindaco di ******, avesse una particolare autorevolezza e notorietà con conseguente pericolo di strumentalizzazione delle sue dichiarazioni.

Nella giurisprudenza disciplinare (Cass. n. 282 del 1999 e n. 5 del 2004; sezione disciplinare 21 marzo 2003 n. 33) si è posto il problema dell'esistenza di eventuali limiti alla libertà di manifestazione del pensiero del magistrato particolarmente noto e autorevole, ma, da un lato, tale problema ha riguardato l'ipotesi di notorietà e autorevolezza conseguita con l'esercizio delle funzioni con possibile strumentalizzazione del ruolo istituzionale, mentre nella specie un pericolo del genere non si poneva perché l'autorevolezza e notorietà del dott. XXXXX era, all'epoca, prevalentemente legata alla sua precedente esperienza di sindaco. D'altro lato, e tale argomento è assorbente, quella giurisprudenza ha comunque recisamente negato che un tale limite soggettivo alla libertà di manifestazione del pensiero possa derivare dalla notorietà e autorevolezza del magistrato. In conclusione, gli illeciti contestati non sussistono e, pertanto, il dottor XXXXX deve essere assolto.

P.Q.M.

La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, Visto l'art. 35 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, assolve il dott. XXXXX dalla incolpazione contestata per essere risultati esclusi gli addebiti.

Roma, 5 marzo 2004

L'ESTENSORE (Giuseppe Salmè)

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