NOTIZIARIO del 09 marzo 2004

 
     

Positive novità all'orizzonte per la riforma dell'ordinamento giudiziario?
di Sergio Chiarloni *

Se sono rose, fioriranno. Di fronte alla disponibilità dichiarata dal Ministro e dal Presidente della commissione giustizia della Camera a rivedere il testo del disegno di legge sulla riforma dell'ordinamento giudiziario approvato dal Senato bene ha fatto l'Associazione nazionale Magistrati a sospendere lo sciopero programmato. Bisogna ora che alle dichiarazioni seguano i fatti.

Fatti corposi, se ci mettiamo dal punto dell'efficienza del servizio e dei pilastri sui cui è fondata la nostra democrazia, in una parola dal punto di vista di diritti fondamentali dei cittadini. Certo, non abbiamo più di fronte gli eccessi del progetto governativo originario, presentato in Parlamento nel giugno 2002, incostituzionale per pubblica ammissione dello stesso Ministro che l'aveva redatto (intervenendo al recente convegno di Venezia della magistratura associata).

Il maxiemendamento presentato dal governo nel marzo dell'anno scorso ha tolto di mezzo le norme che da un lato prevedevano la scelta dei commissari del concorso per l'accesso alla Corte di cassazione su una rosa proposta dal Ministro della giustizia e, dall'altro, istituivano la scuola della magistratura sotto il controllo della stessa Corte. Norme che evocavano un assetto della magistratura tipico di molti regimi autoritari del passato, dove l'esecutivo influiva sulla scelta dei giudici della corte suprema, cui poi affidava la gestione del corpo.

Tuttavia, dubbi di costituzionalità restano e sono pesanti.

Tanto per cominciare, e con buona pace dell'Unione delle Camere penali, che proclamano sei giorni di sciopero per non aver ottenuto una formale separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, oramai diventata un'autentica fissazione, la previsione di concorsi separati per l'accesso in magistratura e di un concorso per passare da una funzione all'altra concreta una separazione sostanziale tra le due figure di magistrati, che la Costituzione non vuole, quando proclama all'art. 107, comma 3° che "i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni".

In verità, sembra veramente difficile che una volta vinto un concorso di accesso per esami differenziati a seconda che voglia diventare giudice o pubblico ministero, un magistrato si sobbarchi all'onere di farne un altro per passare da una funzione all'altra (senza vantaggi di carriera), quando la sua vita professionale è scandita da gran numero di altri concorsi, per le funzioni di appello, per le funzioni di cassazione, per le funzioni direttive, per le funzioni semidirettive.

Gli avvocati, che sono anche giuristi, fino a prova contraria, dovranno ben rendersi conto prima o poi che la separazione delle carriere passa attraverso la revisione della Costituzione. Distorcerla ad uso e consumo dell'obbiettivo tramite un'inverosimile lettura dell'art.111 in tema di giusto processo, secondo cui la parità delle armi tra accusa e difesa postulerebbe l'appartenenza ad ordini diversi di pubblici ministeri e giudici significa scambiare gli strumenti della retorica da comizio con quelli della tecnica giuridica.

Per quanto mi riguarda, credo fermamente che quella revisione non vada messa in cantiere, perché sarebbe politicamente inopportuna. So benissimo che grandi Paesi europei conoscono la separazione delle carriere e la dipendenza del PM dall'esecutivo, la seconda sbocco necessitato della prima. Ma chi continua a farci presente, in maniera piuttosto ossessiva, che in Francia il magistrato del parquet dipende dal Ministro di giustizia e che in Germania il PM è addirittura una sorta di funzionario amministrativo dimostra di avere un'idea molto astratta e unilaterale della comparazione giuridica.

Quel che può andar bene per altri Paesi sarebbe cosa pessima per il nostro. In un paese in cui il trasformismo è endemico, il livello della corruzione elevato, l'amministrazione delle grandi società commerciali priva di trasparenza, la criminalità organizzata parassita di flussi importanti di denaro pubblico non si può confidare nell'autocorrezione degli eccessi, che vediamo all'opera in democrazie più mature della nostra, affinché sia garantito il minimo di virtù, del ceto politico amministrativo e dei centri di potere economico-finanziario, necessario per preservare la società civile dalla decadenza, anche economica.

Da noi più che altrove c'è assoluto bisogno di una magistratura requirente formalmente e sostanzialmente indipendente, entro un sistema di contrappesi a protezione dell'etica pubblica.

Per quanto riguarda i giudici, la paranoia concorsuale più ricordata sembra in conflitto con il principio dell'indipendenza interna. Si tende a ritornare alla figura del magistrato funzionario inserito all'interno di una struttura fortemente gerarchizzata, inevitabilmente affetto dalla febbre competitiva, portato all'omologazione della sua giurisprudenza con quella dei vertici, e in più, cosa questa avvilente non solo per i giudici che ne sono l'oggetto, ma per l'intera comunità giuridica che vede buttare nel cestino un'assestata elaborazione culturale dei discorsi sul diritto, timoroso di un'azione disciplinare per i supposti errori di interpretazione della legge.

Va anche sottolineato che il modello proposto è del tutto controproducente rispetto allo scopo di recuperare l'efficienza del servizio. Un caso classico di eterogenesi dei fini, se sono davvero quelli magniloquentemente dichiarati. Il rischio è che la giurisdizione virtuale dei concorsi necessari per avanzare nella carriera distragga i magistrati dall'esercizio quotidiano della giurisdizione reale.

Dobbiamo aspettarci un forte calo di produttività da parte di giudici stimolati, per la valutazione dei titoli, a privilegiare le collaborazioni editoriali, oltre che ad infarcire le loro sentenze di inutili digressioni atte a dimostrare sapienza giuridica. E già ce li vediamo quei giudici, in vista degli esami, periodicamente rinchiusi nei loro studi a memorizzare cumuli di nozioni estranee alla professionalità acquisita.

Certo la giustizia italiana è in crisi. La lunghezza dei processi è almeno doppia rispetto alla media europea. Non bisogna tuttavia dimenticare che l'introduzione di alcune migliaia di giudici di pace e l'istituzione del giudice unico in tribunale hanno prodotto qualche miglioramento.

E' vero che non basta e bisogna insistere con le riforme. Ma per questo non serve un legislatore così nevroticamente fissato a riformare i giudici invece di occuparsi dell'amministrazione della giustizia. Occorre cambiare obbiettivo.

Soltanto se le prossime trattative tra le forze politiche si orienteranno nella direzione di riorganizzare e modernizzare le strutture, nonché di garantire la professionalità di tutti gli operatori che agiscono sulla scena del processo potremo cominciare a sperare.

* Avvocato, ordinario di procedura civile presso l'Universita' di Torino

by Bollettino Osservatorio

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