NOTIZIARIO del 25 agosto 2003

 
     

La vittoria si vergogna

Dopo la più ingiustificabile delle guerre, quella «preventiva» degli Usa all'Iraq, nel marzo-aprile, il presidente statunitense Bush non ha proclamato né celebrato la vittoria, ma, il 1° maggio, la «fine dei combattimenti». Sembrerebbe una atto di pudore, cioè un inizio di saggezza. Ma la gestione della vittoria e dell'occupazione militare rivela tutta l'insipienza della guerra e l'imprevidenza completa sulla situazione successiva.

La gente dell'Iraq sta peggio da liberata che sotto la dittatura di Saddam, almeno nei momenti in cui non reprimeva e uccideva gli oppositori. Mancano acqua ed elettricità in gran parte del paese. La malavita regna a Baghdad: furti, omicidi, spari per le strade, rapimenti quotidiani di persone, anche bambini, tutti fatti che non si verificavano sotto il dittatore. Anche vivere appena sicuri fa parte della libertà.

Ogni giorno qualche soldato statunitense (sono poveracci andati in una guerra che credevano facile e breve, per ottenere cittadinanza e diritti: delitto per diritto!) è ucciso dalla resistenza. Queste azioni, violente come ogni guerra, sono chiamate agguati terroristici. La cattura di Saddam, annunciata alcune settimane fa per le prossime ore, è rientrata nel silenzio. Pudore anche questo?

Nei giorni tra il 20 e il 22 agosto ho sentito a Primapagina, la rassegna stampa di Radiotre, che, nel sito della Casa Bianca, l'espressione di Bush del 1° maggio è stata ora modificata in «fine dei principali combattimenti». Rimedio di una madornale gaffe imperiale?

In questi giorni Bush chiede fiumi di miliardi, anche agli alleati, per la ricostruzione dell'Iraq: non dei diritti politici, ma della vita sufficiente. Chi ha distrutto l'Iraq? Interessa la vita delle persone o gli affari? La vittoria militare, cioè ignorante, si vergogna del suo nome?

Infatti, non è vittoria, non afferma il positivo sul negativo, la vita sulla morte. La logica delle armi riproduce il male che crede di combattere. Quell'inizio di saggezza o di pudore che potrebbe apparire nel linguaggio è smentito dai fatti, che non escono dalla stoltezza delle armi.

Un giornale ha scritto che «l'incantesimo della forza si è dissolto», nell'inconcludenza cruenta dell'operazione statunitense in Iraq. E' vero solo per chi sa vedere ora, se non la vedeva già prima, questa verità. Non è vero per il contagio di violenza che insanguina città e cuori da Gerusalemme a Bombay, da Gaza all'Indonesia, a luoghi fuori attenzione in Africa. Epicentro del rilancio Baghdad. Indispensabile per cercare la pace è vedere la violenza, comunque motivata, per quello che è.

E' ciò che deve non essere, perché l'umanità cominci ad essere. E' ciò che mai nulla può giustificare. Chi vuole rappresentare la legge della convivenza tra persone e popoli deve escludere la violenza per primo, senza condizioni, dal catalogo dei propri mezzi d'azione, se davvero vuole che ci sia meno violenza nelle società.

Più grande è la violenza "legale", più diffusa e incitata è la violenza "criminale". Questa c'è, nei cuori umani smarriti e nelle società, ma la cura non sta nell'opporre male a male, ma forza umana nonviolenta a violenza disumana. Il cammino è tardo e lento, arduo, in ciascuno e nelle società, ma lo vediamo, sempre più chiaro lo vediamo.

Enrico Peyretti

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