NOTIZIARIO del 26 luglio 2003

 
     

TRIBUNALE D'APPELLO DI PALERMO; SENTENZA DI II GRADO PROCESSO ANDREOTTI

LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI I GRADO

1) LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO All'esito di un lungo ed articolato dibattimento, il Tribunale di Palermo, con sentenza pronunciata il 23 ottobre 1999, assolveva, ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p., con la formula "perché il fatto non sussiste", il sen. Giulio Andreotti dal delitto di associazione per delinquere aggravata (art. 416, commi 1, 4 e 5 c.p.), commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra) ed in altre località da epoca imprecisata e fino al 28 settembre 1982, e dal delitto di associazione mafiosa aggravata (art. 416 bis, commi 1, 4, 5 e 6, c.p.), commesso, in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra) ed in altre località a partire dal 29 settembre 1982, reati a lui ascritti per avere messo a disposizione dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed all'espansione dell'associazione medesima. E così ad esempio: - partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi dell'organizzazione (in particolare, gli incontri svoltisi in Palermo ed in altre località della Sicilia nel 1979 e nel 1980); - intrattenendo inoltre rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite altri soggetti, alcuni dei quali aventi posizioni di rilevante influenza politica in Sicilia (in particolare l'on.le Salvo Lima ed i cugini Salvo Antonino e Salvo Ignazio); - rafforzando la potenzialità criminale dell'organizzazione, in quanto, tra l'altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della disponibilità di esso Andreotti a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare, a vantaggio dell'associazione per delinquere, individui operanti in istituzioni giudiziarie ed in altri settori dello Stato.

Le ponderose motivazioni della sentenza, depositate il 16 maggio 2000, venivano suddivise in diciannove capitoli, nel primo dei quali veniva riepilogato lo svolgimento del processo; nei successivi due capitoli venivano trattate, in termini generali, le problematiche giuridiche di natura sostanziale che la imputazione contestata proponeva. Dal quarto al diciottesimo capitolo il Tribunale trattava partitamente i fatti e gli episodi essenziali addotti a sostegno della ipotesi accusatoria, mentre nel diciannovesimo traeva, in termini riepilogativi, le conclusioni dalla precedente, articolata disamina.

Avverso la decisione hanno proposto rituale appello il Procuratore della Repubblica ed il Procuratore Generale, chiedendone la riforma con la affermazione della responsabilità dell'imputato. A sostegno del ponderoso gravame proposto dai magistrati della Procura della Repubblica, il solo sul quale è necessario soffermarsi, ricomprendendo esso, in sostanza, anche gli, assai più scarni ed astratti, rilievi contenuti nell'appello presentato dal Procuratore Generale, è stata chiesta, in parziale rinnovazione del dibattimento, la acquisizione dei seguenti documenti, in gran parte attinenti al procedimento a carico del dr. Corrado Carnevale, celebrato dinanzi al Tribunale di Palermo: § il verbale delle deposizioni rese nel testé citato procedimento dal dr. Manfredi Antonio La Penna, dal dr. Mario Garavelli, dal dr. Umberto Toscani, dal dr. Roberto Modigliani, dal dr. Mario De Cato, dal dr. Angelo Vella, dal dr. Pasquale Vincenzo Molinari e dall'avv. Carlo Taormina; § i verbali dei confronti, svoltisi nel medesimo procedimento, tra il dr. La Penna e il dr. Toscani, tra il dr. La Penna e il dr. Vella, tra il dr. La Penna e il dr. Molinari e tra il dr. La Penna e il dr. Carnevale; § le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche esperite sull'utenza di Schiavone Salvatore, commesso della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, ed in particolare di due conversazioni intercorse con l'avv. Alfredo Angelucci; § il provvedimento dell'1 luglio 1997 della Commissione Centrale ex art. 10 Legge 15.3.91, n. 82, con era stata deliberata la adozione del programma speciale di protezione in favore di Brusca Enzo Salvatore; § la sentenza n. 765/99 resa ex art. 444 c.p.p. dal Tribunale di Palermo, Sezione del Giudice per le indagini preliminari, il 29 settembre 1999 nei confronti di Arabia Francesco, imputato del reato di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., divenuta esecutiva il 15 novembre 1999; § la copia dei decreti relativi ai calendari venatori per gli anni 1979/80, 1980/81 e 1981/82; § la copia della Legge Regionale 18.8.78, n. 39, della L.R. 9.8.79, n. 185 e della L.R. 4.8.80, n. 75 relative alle stagioni venatorie 1978/79, 1979/80 e 1980/81; § l'estratto della sentenza emessa in data 31 luglio 1997 dalla I Sezione della Corte d'Assise di Palermo nel procedimento contro Agrigento Giuseppe + 57; § la copia del dispositivo della sentenza emessa in data 18 marzo 2000 dalla III Sezione della Corte d'Assise di Palermo nel procedimento contro Agrigento Giuseppe + 52.

L'imputato è stato, pertanto, tratto a giudizio dinanzi a questa Corte e la udienza iniziale, celebrata il 19 aprile 2001, è stata dedicata esclusivamente alla relazione della causa. Su richiesta delle parti è stato, quindi, concesso un lungo rinvio e nella successiva udienza dell'11 ottobre 2001 le parti hanno precisato le rispettive richieste di rinnovazione del dibattimento. In particolare, il P.G. ha insistito nelle già rassegnate richieste, integrandole con quella volta ad ottenere la produzione dell'estratto della suddetta sentenza del 18 marzo 2000 e di copia della trascrizione dell'udienza del 13 luglio 1999 del medesimo procedimento di appello a carico di Agrigento + 52, nella quale Brusca Enzo Salvatore ebbe a concordare con il Procuratore Generale la pena di anni nove di reclusione, con la applicazione della attenuante di cui all'art. 8 DL 152/1991.

La Difesa di parte civile si è associata alle istanze del P.G. e la Difesa nulla ha osservato in merito, sollecitando, però, alcune integrazioni probatorie costituite: § da documentazione concernente i movimenti dell'imputato negli ultimi quattro mesi del 1979; § da un elenco degli impegni del sen. Andreotti relativi ad alcuni giorni dei mesi di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre 1979 tratti dai diari personali del predetto; § da copia di pagine dei diari dell'imputato relative all'1 luglio 1979; § da copia di un articolo di stampa dell'8 ottobre 1999 contenente una intervista al c.te Rezzonico; § da copia di articoli di stampa del 25 giugno 1979 (tratti dai quotidiani "Il Giorno" e "La Stampa") e del 26 giugno 1979 (tratto dal quotidiano "Il Popolo"); § da copia delle trascrizioni di ulteriori dichiarazioni (rese dai dr.i Pasquale La Cavera, Lucio Del Vecchio ed Antonio Brancaccio), della sentenza della I Sezione Penale della Corte di Cassazione concernente il ricorso proposto da Giuseppe Durante avverso l'ordinanza con la quale la Corte di Appello di Lecce aveva dichiarato inammissibile la istanza di ricusazione del dr. Manfredi Antonio La Penna e la copia del verbale del 7 marzo 1989 relativo al procedimento, celebrato dinanzi alla Corte di Cassazione, sul ricorso di Bonanno Armando + 2, raccolti nel corso del dibattimento celebrato nei confronti del dr. Corrado Carnevale. Nella stessa udienza dell'11 ottobre 2001 l'imputato ha reso spontanee dichiarazioni.

Nella udienza del 25 ottobre 2001 il P.G. e la parte civile si sono espressi sulle richieste della Difesa non opponendosi alle relative produzioni e la Corte ha provveduto in merito con apposita ordinanza, ammettendo esclusivamente la produzione dei seguenti documenti: § il provvedimento dell'1 luglio 1997 della Commissione Centrale ex art. 10 L. 15.3.91, n. 82, con cui era stata deliberata la adozione del programma speciale di protezione in favore di Brusca Enzo Salvatore; § la sentenza n. 765/99 resa, ex art. 444 c.p.p., dal Tribunale di Palermo, Sezione del Giudice per le indagini preliminari il 29 settembre 1999 nei confronti di Arabia Francesco, imputato del reato di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., divenuta esecutiva il 15 novembre 1999; § copia dei decreti relativi ai calendari venatori per gli anni 1979/80, 1980/81 e 1981/82; § copia della L. Reg. 18.8.78, n. 39, della L. Reg. 9.8.79, n. 185 e della L. Reg. 4.8.80, n. 75, relative alle stagioni venatorie 1978/79, 1979/80 e 1980/81; § estratto della sentenza emessa in data 31 luglio 1997 dalla I Sezione della Corte d'Assise di Palermo nel procedimento c/ Agrigento Giuseppe + 57; § estratto della sentenza emessa in data 18 marzo 2000 dalla III Sezione della Corte d'Assise di Palermo c/ Agrigento Giuseppe + 52; § copia della trascrizione dell'udienza del 13 luglio 1999 del medesimo procedimento di appello a carico di Agrigento + 52; § copia dell'articolo di stampa contenente l'intervista al c.te Rezzonico; § copia dei diari dell'imputato relativi all'1 luglio 1979; § le copie degli ulteriori articoli di stampa prodotte dalla Difesa. Si è, quindi, passati alla discussione che ha impegnato la Corte e le parti per numerose udienze, celebrate, di massima, con cadenza bisettimanale a causa dei concomitanti, gravosi impegni della Corte. Nel corso della discussione, nella udienza del 28 novembre 2002, il P.G. ha chiesto che venisse esaminato, quale imputato in procedimento connesso, Antonino Giuffrè, esponente di spicco di Cosa Nostra e capomafia di Caccamo, nelle more determinatosi a collaborare con la giustizia dopo essere arrestato in seguito ad una lunga latitanza: all'uopo ha esibito verbale della deposizione dibattimentale resa dal predetto dinanzi al Tribunale di Termini Imerese nella udienza del 16 ottobre 2002, nonché verbale dell'interrogatorio reso dal medesimo dinanzi ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia il 7 novembre 2002, di cui ha chiesto, in via subordinata, la produzione.

Il difensore della parte civile ha aderito alle istanze del P.G., mentre la Difesa si è opposta alla produzione del secondo dei due verbali nulla obiettando sulla produzione del primo e si è rimessa alla decisione della Corte in ordine alla richiesta di esaminare il Giuffrè. In appendice della medesima udienza del 28 novembre 2002 l'imputato ha reso spontanee dichiarazioni. Con ordinanza di cui ha dato lettura nella successiva udienza del 13 dicembre 2002, la Corte ha disposto la interruzione della discussione e l'esame del Giuffrè, che è stato, quindi, raccolto nella udienza celebrata in Milano il 16 gennaio 2003, nel corso della quale, su richiesta della Difesa, alla quale nulla ha obiettato il P.G., è stato acquisito il già citato verbale di interrogatorio del 7 novembre 2003. Nella successiva udienza del 31 gennaio 2003 la Difesa ha chiesto: a) acquisirsi i verbali delle dichiarazioni rese ai magistrati della locale Direzione Distrettuale Antimafia da Giuseppe Lipari, nato a Campofiorito il 14 aprile 1935, il 5 novembre 2002, il 20 novembre 2002, il 28 novembre 2002, 5 dicembre 2002, il 18 dicembre 2002 ed il 15 gennaio 2003; b) esaminarsi il medesimo Lipari. Il P.G. e la Parte Civile, opponendosi alle superiori richieste, hanno chiesto, a loro volta, ammettersi la produzione della nota di accompagnamento dei predetti verbali a firma del Procuratore della Repubblica di Palermo, datata 17 gennaio 2003.

Il P.G., inoltre, con riferimento alle dichiarazioni del Giuffrè, ha chiesto acquisirsi il decreto di applicazione della misura di prevenzione a carico di Michele Greco e le posizioni giuridiche dello stesso Michele Greco, di Diego Guzzino e di Francesco Intile - la Difesa si è opposta limitatamente al decreto applicativo della misura di prevenzione -.

La Corte, con ordinanza di pari data, ha ammesso tutte le richieste delle parti, osservando, tra l'altro (non nell'ordine che sarà tosto esposto): che, alla stregua di quanto acquisito - e, da ultimo, anche dalle dichiarazioni rese dinanzi alla Corte dal collaboratore Antonino Giuffrè -, doveva ritenersi circostanza pressoché certa che il Lipari, profondamente legato ai vertici della mafia "corleonese", fosse a conoscenza di fatti che potevano rilevare ai fini della decisione; b) che doveva riconoscersi che dalla lettura delle contestazioni rivolte al Lipari nel corso dell'interrogatorio del 15 gennaio 2003, basate sui contenuti delle intercettazioni ambientali di colloqui da lui avuti con i familiari il 3 dicembre 2002 ed il 7 gennaio 2003, e delle affermazioni del medesimo emergeva, in termini piuttosto palesi, la esistenza di reiterati e scorretti comportamenti del predetto ed il sospetto di propalazioni inattendibili e strumentali, non confermato, però, da una esplicita, ancorché indiretta, ammissione della falsità di quanto lo stesso Lipari aveva dichiarato agli inquirenti; c) che la Corte aveva privilegiato la esigenza di ricercare, per quanto possibile, la verità, che aveva posto a base della precedente ordinanza del 13 dicembre 2002, con la quale, a richiesta del P.G., aveva interrotto la discussione per ammettere l'esame del collaboratore Giuffrè; d) che, in tale senso, era necessario non precludere all'imputato la possibilità di svolgere con la massima pienezza l'esercizio della sua attività difensiva e, pertanto, ammettere, in quanto non palesemente irrilevanti, tutte le richieste formulate in relazione alle dichiarazioni del Lipari, che sembravano, in qualche misura, assumere, rispetto a quelle del Giuffrè, anche carattere di prova contraria, fatta salva, naturalmente, ogni riserva in ordine alla valutazione della attendibilità delle stesse. Nella udienza del 14 marzo 2003 è stato, quindi, esaminato, quale testimone assistito, il Lipari, il quale ha risposto alle domande della Difesa, del P.G., della Parte Civile e della Corte.

In appendice della stessa udienza l'imputato ha reso una breve dichiarazione spontanea, dando lettura ad una missiva datata 6 febbraio 2003, inviatagli dal dr. Mario Gonzales, prefetto a riposo e già Questore di Trapani, concernente l'episodio dell'incontro con il giovane Andrea Manciaracina, missiva che è stata, quindi, esibita alla Corte dalla Difesa. Nella successiva udienza del 4 aprile 2003 è stata ripresa la discussione con l'intervento del P.G. e della Parte Civile, che hanno depositato memorie illustrative; anche la Difesa ha depositato ponderosa memoria. Nella successiva udienza del 17 aprile 2003 è intervenuta nuovamente la Difesa dell'imputato ed, infine, nella udienza del 2 maggio 2003, tutte le parti hanno rinunciato alle previste, brevi repliche, limitandosi a ribadire le loro, già formulate, richieste conclusive, sicché la Corte si è ritirata in camera di consiglio per la decisione.

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Si ritiene utile, al fine di offrire una sintetica, ma complessiva, visione delle ragioni della decisione del Tribunale, riepilogare, innanzitutto, in questa prima parte della sentenza, il contenuto della appellata decisione, con la avvertenza che i primi giudici hanno, di massima, sistematicamente curato di trascrivere testualmente i numerosi passi delle deposizioni acquisite, ai quali, di volta in volta, hanno fatto riferimento. Nella seconda parte del presente elaborato si darà conto dei ponderosi rilievi dei PM appellanti, che verranno rassegnati in modo particolarmente dettagliato (senza eludere, di massima, neppure le non infrequenti ridondanze e le riportate, testuali trascrizioni delle richiamate parti delle deposizioni acquisite), al fine di offrire delle articolatissime censure un quadro fedele, completo ed organico, cui non sfugga alcuna significativa argomentazione fatta valere - e ciò a prescindere dal giudizio della Corte sulla effettiva rilevanza delle singole deduzioni -. Infine, nella terza parte della sentenza verranno esposti i motivi della decisione. Prima di addentrarsi nella preannunciata trattazione è opportuno offrire una sinteticissima rappresentazione della figura pubblica dell'imputato, eminentissima personalità politica che ha attraversato da protagonista la storia della Repubblica Italiana. All'uopo ci si può affidare al seguente, eloquente riepilogo del curriculum del predetto offerto dai testi di p.g. isp. Salvatore Bonferraro e m.llo Antonio Pulizzotto, curriculum che non comprende, peraltro, i numerosi incarichi ministeriali e i più recenti incarichi di Presidente del Consiglio dei Ministri dal medesimo ricoperti:

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2) LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI I GRADO

Nel primo capitolo (v. pag. 6 e ss.) della sentenza il Tribunale, come già ricordato, dava conto dello svolgimento del giudizio. In particolare, dava atto: - che nella udienza del 26 settembre 1995, dopo la costituzione di parte civile del Comune di Palermo in persona del legale rappresentante pro-tempore, la Difesa dell'imputato aveva sollevato alcune questioni preliminari, tutte attinenti alla competenza del Tribunale e relative a tre diversi profili. Una prima eccezione (già tempestivamente formulata, ai sensi dell'art. 21, comma 2, c.p.p., nel corso dell'udienza preliminare e rigettata da quel giudice) riguardava la incompetenza territoriale e poggiava sul rilievo che, ai sensi degli artt. 8 e 9 c.p.p., il procedimento spettava alla cognizione dell'A.G. di Roma. Una seconda eccezione, concernente la incompetenza per materia e funzionale del giudice dell'udienza preliminare e del Tribunale, era basata sulla assunta qualificazione come "ministeriali" dei reati ascritti all'imputato, con conseguente violazione degli artt. 6, commi 2 e 8, della legge costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1, dell'art. 1 della legge 5 giugno 1989 n. 219 e dell'art. 4 c.p.p.. In particolare, nel prospettare il profilo di incompetenza in questione, la Difesa dell'imputato aveva rilevato che le condotte contestate all'imputato nel decreto che aveva disposto il giudizio, a titolo di associazione per delinquere semplice e di tipo mafioso, erano tutte funzionalmente connesse alle funzioni ministeriali quasi ininterrottamente esercitate nei periodi di riferimento dal sen. Andreotti.

Competente a conoscerne era, quindi, il Collegio per i reati ministeriali previsto dall'art. 7 della legge costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1, sicché era stata eccepita anche la nullità del decreto di citazione a giudizio per la dedotta incompetenza per materia e funzionale del giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Palermo. Infine, il terzo aspetto investiva la competenza del Tribunale adito, che, secondo la Difesa, difettava in dipendenza della connessione del procedimento con altro in corso di trattazione dinanzi alla A.G. di Perugia, ove, con richiesta di rinvio a giudizio formulata dal Procuratore della Repubblica di Perugia in data 20 luglio 1995, era stata promossa l'azione penale nei confronti dell'imputato in ordine al delitto di omicidio pluriaggravato, in concorso con altri soggetti, in pregiudizio di Pecorelli Carmine, consumato in Roma il 20 marzo 1979. In proposito, la Difesa aveva rilevato che, tenuto conto dell'identità di alcuni dei soggetti coimputati del sen. Andreotti nel procedimento penale promosso dal Procuratore della Repubblica di Perugia, indicati o già definitivamente condannati come esponenti, anche di rilievo, di Cosa Nostra, e soprattutto delle causali che, secondo la prospettazione accusatoria, erano alla base dell'omicidio del Pecorelli, sussisteva una evidente connessione tra il relativo procedimento penale e quello pendente per i reati associativi dinanzi al Tribunale di Palermo, ricorrendo le ipotesi previste dall'art. 12, lettere b) e c), c.p.p..

Il Tribunale, con ordinanza emessa nella udienza del 6 ottobre 1995, aveva rigettato le eccezioni di incompetenza per territorio, per materia e funzionale ed aveva dichiarato inammissibile l'eccezione di incompetenza derivante da connessione. Posto ciò, veniva rassegnato: - che si era proceduto, quindi, all'esame delle questioni preliminari, concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento, proposte dalle parti ai sensi dell'art. 491 c.p.p.: su di esse il Tribunale aveva deliberato con ordinanza emessa nell'udienza del 17 ottobre 1995 (e con la successiva ordinanza di correzione del 18 ottobre 1995); - che risolte le questioni preliminari e dichiarato aperto il dibattimento, il PM aveva proceduto alla esposizione introduttiva dei fatti oggetto delle imputazioni, sul cui contenuto la Difesa aveva sollevato eccezioni sulle quali il Tribunale aveva deciso con tre ordinanze emesse nelle udienze del 18 ottobre e 31 ottobre 1995; - che la Difesa dell'imputato, a sua volta, aveva sostenuto la assoluta infondatezza delle tesi accusatorie; - che nelle udienze del 14, 20, 21 e 27 novembre 1995 il PM aveva chiesto di provare i fatti posti a fondamento delle accuse mediante: l'esame di testi, di imputati o indagati di reato connesso; la produzione di numerosi documenti analiticamente indicati nell'elenco depositato; la acquisizione di verbali di prova di altri procedimenti penali, anch'essi analiticamente indicati in lista; la acquisizione di alcune sentenze e provvedimenti giurisdizionali; la acquisizione delle trascrizioni di alcune intercettazioni telefoniche ed ambientali provenienti da altri procedimenti; l'esame dell'imputato; - che la Difesa di parte civile si era associata alle richieste formulate dal PM; - che la Difesa dell'imputato aveva richiesto l'esame dei testi e degli imputati o indagati di reato connesso indicati nella propria lista, nonché: l'esame di ulteriori testi dedotti ex art. 493, comma 3, c.p.p.; la acquisizione di vari documenti e provvedimenti giurisdizionali indicati in apposito elenco depositato; l'esame dell'imputato; - che le parti nel corso delle suddette udienze avevano formulato, altresì, le loro eccezioni ed osservazioni sulle rispettive richieste di mezzi di prova, sulle quali il Tribunale aveva deciso con la ordinanza emessa nella udienza del 27 novembre 1995; - che la istruttoria dibattimentale aveva preso avvio nella udienza del 5 dicembre 1995 con l'esame dei primi due testi (La Barbera Arnaldo e Pomi Domenico) ed era proseguita con l'esame degli indagati di reato connesso Pennino Gioacchino (udienza 15 dicembre 1995) e Buscetta Tommaso (udienze del 9 e 10 gennaio 1996); - che, a causa delle sopravvenute, precarie condizioni di salute di uno dei componenti del Collegio, il processo aveva subito alcuni rinvii fino al 10 aprile 1996, allorquando il Tribunale, preso atto della impossibilità di un tempestivo recupero del predetto, aveva disposto la rinnovazione della citazione a giudizio; - che il processo, quindi, era stato ripreso nella udienza del 15 maggio 1996, nel corso della quale, riconfermate dal Tribunale con ordinanza le proprie decisioni sia sulle eccezioni preliminari, reiterate dalla Difesa, sia sulle questioni riguardanti la composizione del fascicolo per il dibattimento, le parti avevano nuovamente formulato le rispettive richieste di mezzi di prova, integrandole con ulteriori istanze di ammissione dell'esame di nuovi testi ed indagati di reato connesso e di acquisizione di nuova documentazione; - che nella successiva udienza del 21 maggio 1996 il Tribunale, con apposita ordinanza, aveva deciso sulla ammissione dei mezzi di prova. Con la medesima ordinanza, sull'accordo delle parti, erano stati indicati quali atti utilizzabili ai fini della decisione i verbali delle prove assunte alle udienze del 5 dicembre 1995, 15 dicembre 1995, 9 gennaio 1996 e 10 gennaio 1996; - che nel corso del complessa ed ampia istruzione dibattimentale, protrattasi per circa 180 udienze, il Tribunale, con numerose ordinanze, aveva deciso sia in ordine ad ulteriori richieste di ammissione di mezzi di prova testimoniale e documentale formulate dalle parti, sia in merito a numerose questioni processuali (nella sentenza veniva dato succinto conto del contenuto di tali provvedimenti); - che, in particolare, con ordinanza dell'11 dicembre 1997 era stata dichiarata manifestamente infondata la eccezione di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., sollevata dalla Difesa con riferimento agli artt. 430 e 416 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano l'obbligo del PM di depositare integralmente i verbali delle dichiarazioni raccolte nel corso della attività integrativa di indagine ed inerenti al tema che formava oggetto del giudizio, nonché il potere del difensore di sindacare immediatamente sulla integralità del deposito ed il potere del giudice di esercitare un effettivo controllo al riguardo, ordinando, se del caso, al PM di depositare compiutamente gli atti concernenti la difesa dell'imputato; - che le prove orali erano state assunte, dopo quelle già raccolte nella prima fase del processo alle udienze del 5 e del 15 dicembre 1995 e del 9 e 10 gennaio 1996, nel corso delle numerosissime udienze celebratesi tra il 22 maggio 1996 ed il 19 dicembre 1998 (venivano puntualmente elencati nella sentenza tutti i dichiaranti esaminati, con la indicazione delle relative udienze); - che nella udienza del 15 aprile 1998 il PM aveva dichiarato di rinunciare all'esame dell'imputato e di numerosi testimoni ed imputati di reato connesso analiticamente indicati nell'elenco depositato in quella data; - che anche la Difesa dell'imputato aveva rinunciato all'esame del proprio assistito, il quale, tuttavia, nel corso di varie udienze (19 e 20 giugno 1996, 24 febbraio 1997, 11 marzo 1997, 9 giugno 1997, 9 dicembre 1997, 20 e 21 maggio 1998, 15, 28 e 29 ottobre 1998, 17 novembre 1998), aveva reso spontanee dichiarazioni; - che erano stati, quindi, escussi i testi e imputati/indagati di reato connesso indicati dalla Difesa (che, anche in questo caso, venivano puntualmente elencati con la indicazione delle relative udienze); - che, nella udienza del 19 gennaio 1999 il Tribunale, terminata l'acquisizione delle prove, aveva indicato gli atti utilizzabili ai fini della decisione, ai sensi dell'art. 511 c.p.p.; nella medesima udienza il PM aveva iniziato ad illustrare le proprie conclusioni ed aveva proseguito in tale impegno per numerose udienze (complessivamente 23) fino all'8 aprile 1999, giorno in cui aveva concluso richiedendo affermarsi la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati ascrittigli, unificati per continuazione, ed applicate tutte le circostanze aggravanti contestate, la condanna dello stesso alla pena di anni quindici di reclusione; - che nella stessa udienza dell'8 aprile 1999 il difensore della parte civile aveva concluso richiedendo affermarsi la responsabilità dell'imputato in ordine ai reati ascrittigli e la condanna dello stesso al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, oltre alle spese; - che la Difesa aveva iniziato la illustrazione delle proprie argomentazioni nella udienza del 18 maggio 1999 ed aveva proseguito per 24 udienze, concludendo il 5 ottobre 1999 con la richiesta di assoluzione dell'imputato da tutte le imputazioni ascrittegli con la formula "perché il fatto non sussiste"; - che le successive udienze del 6, 7, 11 e 12 ottobre 1999 erano state utilizzate per le repliche del PM e dei difensori dell'imputato; - che nella udienza del 12 ottobre 1999 l'imputato aveva chiesto ed ottenuto, ai sensi dell'art. 523, comma 5, c.p.p., di prendere la parola per l'ultimo intervento difensivo; - che, infine, il Collegio, dopo essersi riunito in camera di consiglio, nella udienza del 23 ottobre 1999 aveva definito il giudizio, pronunciando sentenza di assoluzione dell'imputato ("perché il fatto non sussiste") ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p..

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Nel capitolo II dell'elaborato (v. pag. 68 e ss.) i primi giudici si occupavano di definire, ricorrendo ad ampi richiami di giurisprudenza, la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa e la configurabilità della fattispecie del concorso eventuale nel reato associativo e qualificavano giuridicamente i rapporti illeciti tra esponenti politici ed associazioni di tipo mafioso, distinguendo, al riguardo, quattro diverse ipotesi:

1) la prima veniva individuata nella formale affiliazione dell'esponente politico alla organizzazione mafiosa con posizione stabile e predeterminata all'interno della struttura criminale: in tal caso veniva considerata pacifica la configurabilità del reato previsto dall'art. 416 bis c.p.;

2) un secondo caso veniva individuato nella ipotesi in cui l'esponente politico, pur non essendo formalmente affiliato all'organizzazione mafiosa, avesse instaurato con essa un rapporto di stabile e sistematica collaborazione, realizzando comportamenti che avevano arrecato vantaggio all'illecito sodalizio: anche in tale caso veniva integrata la condotta di partecipazione all'associazione di tipo mafioso, poiché lo scambio di favori ripetuti nel tempo tra l'organizzazione criminosa e colui che fosse divenuto un suo referente politico abituale e godesse del suo sostegno elettorale si risolveva in un continuativo contributo, rilevante sul piano causale, all'esistenza ed al rafforzamento dell'illecito sodalizio. In particolare, veniva osservato che il movente autonomo dell'uomo politico su cui si fondava il rapporto di scambio si intrecciava e si confondeva con le finalità associative; l'uomo politico, infatti, finiva con il perseguire anche la realizzazione degli scopi dell'illecito sodalizio e dimostrava di condividere, orientandola a proprio vantaggio, la logica intimidatoria dell'associazione mafiosa. In proposito veniva citato il pronunciamento della Suprema Corte (sez. I sent. n. 2331 del 1995, ric. Mastrantuono) che aveva rilevato che "ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, comune o di tipo mafioso, non è sempre necessario che il vincolo associativo fra il singolo e l'organizzazione si instauri nella prospettiva di una sua futura permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell'organizzazione stessa, ben potendosi, al contrario, pensare a forme di partecipazione destinate, "ab origine", ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l'obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest'ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell'ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della sua rilevanza penale. E ciò senza necessità di ricorrere, in detta ipotesi, alla diversa figura giuridica del cosiddetto "concorso eventuale esterno" del singolo nella associazione per delinquere";

3) la terza ipotesi era quella del candidato che, per la prima volta nella sua carriera politica o, comunque, in modo occasionale, avesse contrattato con esponenti della associazione mafiosa il procacciamento del voto degli affiliati e la coercizione del voto altrui, in cambio dell'offerta di sistematici favoritismi verso l'organizzazione criminale. Richiamata la decisione della Suprema Corte (Cass. Sez. I sent. n. 2699 del 1992, ric. Battaglini ed altro) che aveva riconosciuto, in linea di principio, che il patto stipulato da un candidato con un'organizzazione di stampo mafioso, al fine di ottenere consenso elettorale in cambio della promessa di agevolare chi gli assicurava l'elezione nella realizzazione dei fini elencati nell'art. 416 bis c.p., era suscettibile di integrare gli estremi di una partecipazione all'associazione criminale, il Tribunale osservava che la delineata soluzione appariva condivisibile, sempre che fosse possibile in concreto ravvisarsi un nesso causale tra la conclusione dell'indicato patto ed il consolidamento dell'illecito sodalizio. Nella ipotesi considerata, ad elezione avvenuta, era configurabile una condotta di partecipazione consistente nella seria manifestazione di disponibilità in favore dell'associazione mafiosa: non poteva, infatti, disconoscersi che l'impegno, assunto dal soggetto, di favorire politicamente in modo permanente la organizzazione criminale nel corso del proprio mandato, laddove gli associati potessero farvi concreto affidamento (in relazione al positivo esito della competizione elettorale, all'atteggiamento tenuto dal candidato ed alle gravi conseguenze di una eventuale violazione del patto anteriormente concluso, foriera della prevedibile, violenta reazione dell'associazione mafiosa), integrava un significativo contributo, idoneo al rafforzamento dell'illecito sodalizio.

Secondo i primi giudici, la conclusione di un siffatto accordo avente ad oggetto lo scambio di favori reciproci, qualora fosse accompagnata e seguita da circostanze tali da lasciare ragionevolmente prevedere che esso avrebbe trovato attuazione concretizzandosi in una sistematica collaborazione, rappresentava un fatto di per sé idoneo ad ingenerare negli associati una fondata fiducia sulla loro possibilità di condizionare a proprio vantaggio l'attività della pubblica amministrazione; una simile situazione, avuto riguardo alle concrete caratteristiche del contesto sociale di riferimento, appariva, secondo l'id quod plerumque accidit, effettivamente suscettibile di potenziare la capacità di inserimento dell'associazione mafiosa nel tessuto sociale, di favorire nuove affiliazioni, di incentivare l'espansione delle attività illecite del sodalizio criminoso. Inoltre, il condizionamento della pubblica amministrazione rientrava nell'ambito dei compiti che normalmente venivano svolti dall'organizzazione mafiosa, sicché la seria disponibilità ad attivarsi in tal senso, con l'assunzione del relativo ruolo, era sussumibile nella fattispecie della partecipazione (invece che in quella del concorso esterno); 4) infine, la quarta ipotesi in cui potevano manifestarsi i rapporti tra esponenti politici ed associazioni di tipo mafioso era quella di episodiche condotte compiacenti, concretantisi, ad esempio, nella concessione di singoli favori. Simili comportamenti, rientranti nel concetto di "contiguità mafiosa" (intesa come compiacente vicinanza derivante da condizionamenti di natura socio-culturale o ambientale), non integravano gli estremi della partecipazione all'associazione di tipo mafioso, difettando l'affectio societatis. Essi, tuttavia, potevano ricondursi alla diversa fattispecie del concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso qualora si risolvessero nella effettiva realizzazione di almeno un apporto che avesse causalmente contribuito alla conservazione o al rafforzamento della struttura criminale (anche in uno specifico settore), consentendole di superare una situazione di anormalità. La punibilità dei predetti comportamenti era, comunque, subordinata in concreto alla mancanza dei presupposti richiesti per l'applicazione di immunità penali ovvero di cause di giustificazione previste dall'ordinamento giuridico.

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Proseguendo nella trattazione dei presupposti teorici necessari ai fini della valutazione delle acquisite risultanze, il Tribunale si soffermava nel III capitolo della sentenza (v. pag. 141 e ss.) sulla prova del reato associativo e, in particolare, sui criteri di valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, elemento probatorio peculiare e fondamentale in materia di reati associativi di tipo mafioso. Anche a questo riguardo veniva fatto ampio richiamo ad arresti giurisprudenziali concernenti i vari aspetti della problematica e la disamina veniva conclusa con la considerazione che, nel caso di concorso esterno, alla diversa configurazione della condotta punibile corrispondeva una maggiore specificità del thema probandum, che si sostanziava nell'accertamento dell'effettiva realizzazione, ad opera dell'imputato, di almeno un intervento che avesse contribuito ad assicurare l'esistenza o il rafforzamento dell'associazione di tipo mafioso in una fase "patologica", o, comunque, particolarmente difficile della vita del sodalizio. Qualora le fonti di prova fossero costituite da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, era necessario che le stesse convergessero sia sul fatto storico, idoneo a mantenere in vita o a rafforzare l'organismo criminale, sia sul soggetto che lo aveva posto in essere, e non semplicemente su una generica "vicinanza" dell'imputato all'associazione mafiosa o a taluni suoi esponenti.

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Con il capitolo IV della sentenza il Tribunale entrava nel merito delle accuse, trattando dei rapporti del sen. Andreotti con i cugini Antonino e Ignazio Salvo, con l'on. Salvatore Lima e con Vito Ciancimino. Il capitolo veniva diviso in tre diverse sezioni, dedicate alle relazioni che l'imputato aveva intrattenuto, rispettivamente, con i cugini Salvo, con l'on. Lima e con il Ciancimino. In dieci distinti paragrafi veniva suddivisa la prima sezione, concernente i cugini Salvo. Nel primo paragrafo (v. pag. 194 e ss.) venivano trattati l'inserimento dei cugini Antonino e Ignazio Salvo, ricchi e potenti esattori di Salemi, nella famigerata organizzazione mafiosa Cosa Nostra ed i loro rapporti con i diversi schieramenti del sodalizio: al riguardo, richiamando, in particolare, le indicazioni fornite da Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Salvatore Cucuzza, Vincenzo Sinacori, Francesco Marino Mannoia, Francesco Di Carlo, Gioacchino Pennino e Gaspare Mutolo, tutti collaboratori di giustizia già appartenuti a Cosa Nostra, e dell'ex ministro on. Virginio Rognoni, il Tribunale osservava che era rimasto dimostrato che: - i cugini Salvo erano organicamente inseriti nell'associazione mafiosa Cosa Nostra sin da epoca anteriore al 1976, così come riferito dal Buscetta, dal Calderone e dal Di Carlo; - Ignazio Salvo era "sottocapo" della "famiglia" di Salemi (dichiarazioni del Buscetta, del Calderone, del Cucuzza, del Sinacori e del Pennino); - Antonino Salvo per un certo periodo aveva rivestito la carica di "capodecina" della stessa cosca mafiosa (affermazioni del Buscetta, del Calderone, del Cucuzza); - i cugini Salvo in un primo tempo erano stati particolarmente vicini ad esponenti dello schieramento "moderato" di Cosa Nostra, come Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate (dichiarazioni del Buscetta, del Calderone, del Cucuzza, del Sinacori, del Marino Mannoia, del Di Carlo); - dopo l'inizio della "guerra di mafia", i cugini Salvo erano passati dalla parte dello schieramento "vincente", che faceva capo a Salvatore Riina (dichiarazioni del Cucuzza, del Sinacori, del Marino Mannoia, del Di Carlo); - diversi esponenti di Cosa Nostra si erano rivolti ai Salvo per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali (dichiarazioni del Sinacori, del Di Carlo, del Mutolo, nonché quelle di altri collaboranti, menzionate in altri capitoli della sentenza); - i cugini Salvo manifestavano ad altri esponenti mafiosi i loro stretti rapporti con l'on. Lima (dichiarazioni del Buscetta, del Calderone, del Di Carlo, del Pennino, del Mutolo); - i cugini Salvo, nei loro colloqui con diversi esponenti mafiosi, evidenziavano i loro rapporti con il sen. Andreotti (indicazione fornita dal Buscetta, dal Di Carlo, dal Pennino); - per alcuni anni, l'appartenenza dei Salvo a Cosa Nostra era stata resa nota solo ad alcuni degli associati (precisazione del Marino Mannoia, del Di Carlo e del Mutolo). Veniva, ancora, rilevato: - che dalla sentenza emessa il 16 dicembre 1987 dalla Corte di Assise di Palermo nel c.d. maxiprocesso si desumeva, comunque, che da tempo erano stati avanzati sospetti sull'inserimento dei cugini Salvo nel sodalizio criminale; - che sui problemi relativi alle esattorie ed ai cugini Salvo si era concentrata, nel 1982, la attenzione del Prefetto di Palermo gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale - rendendosi conto dell'importanza della questione - aveva avvertito la esigenza di farne cenno in occasione di un suo incontro con il Ministro dell'Interno on. Virginio Rognoni, svoltosi a Ficuzza nell'agosto dello stesso anno; - che del coinvolgimento dei cugini Salvo nelle vicende relative a Cosa Nostra era convinto il Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo dr. Rocco Chinnici, come si desumeva dalle dichiarazioni rese il 4 agosto 1983 al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta dal dr. Paolo Borsellino.

Nel secondo paragrafo (v. pag. 570 e ss.) venivano trattati la influenza politica dei cugini Salvo ed i loro rapporti con la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Al riguardo, richiamati, in particolare, gli apporti dei dichiaranti on. Giuseppe D'Angelo, on. Giacomo Mancini, on. Mario Fasino, on. Sergio Mattarella, on. Giuseppe Campione, Francesco Maniglia, Matteo Dominici, Calogero Adamo, on. Attilio Ruffini, Gioacchino Pennino, Giuseppe Cambria, Francesco Di Carlo, on. Nicolò Graffagnini, on. Mario D'Acquisto ed on. Antonino Drago (le indicazioni degli ultimi tre venivano disattese), il Tribunale concludeva che l'esame del complessivo quadro probatorio acquisito induceva ad affermare che i cugini Salvo avevano offerto un sostegno aperto, efficace e costante (seppure non esclusivo) a diversi esponenti della corrente andreottiana, sulla base dello stretto rapporto di collaborazione e di amicizia personale instaurato da lungo tempo con l'on. Salvo Lima.

Il terzo paragrafo (v. pag. 681 e ss.) veniva dedicato al regalo fatto dal sen. Andreotti in occasione delle nozze della figlia maggiore di Antonino Salvo. In proposito, venivano, in particolare, richiamati gli apporti di Armando Celone, del m.llo Antonino Pulizzotto, di Rosalba Lo Jacono, di Giovanni Brusca, di Vincenzo Sinacori, di Gioacchino Pennino, di Giovanni Drago, di Tullio Cannella, del ten. col. Domenico Pomi, di Salvatore Cancemi, di Gioacchino La Barbera, del magg. Luigi Bruno, del notaio Salvatore Albano e di Calogero Adamo. Il complesso degli elementi probatori raccolti, fondati prevalentemente sulle confidenze fatte ai dichiaranti da Gaetano Sangiorgi, secondo i primi giudici, valeva a dimostrare che il sen. Andreotti aveva inviato, in occasione del matrimonio tra lo stesso Sangiorgi ed Angela Salvo (figlia di Antonino Salvo), un dono nuziale consistente in un vassoio d'argento. In sede di commento veniva osservato che l'offerta di un simile regalo presupponeva necessariamente la preventiva instaurazione di intensi rapporti, anche sul piano personale, quanto meno con Antonino Salvo: non risultava, infatti, che - al di fuori dello stretto legame che lo univa ad Antonino Salvo (e di riflesso ai suoi congiunti) sul piano politico e personale - l'imputato avesse avuto occasione di intrattenere ulteriori relazioni amichevoli con gli sposi, ovvero con la famiglia di origine del Sangiorgi. Nessuna indicazione in tal senso era stata fornita dal sen. Andreotti, che nelle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 15 dicembre 1995, si era limitato a sostenere (nel quadro di una completa negazione dei propri rapporti con i Salvo) di non avere ricevuto alcun invito o partecipazione per il suddetto matrimonio e di non avere inviato regali né telegrammi.

Il quarto paragrafo (v. pag. 762 e ss.) veniva dedicato all'incontro tra il sen. Andreotti e Antonino Salvo presso l'Hotel Zagarella in data 7 giugno 1979. In proposito, a parte le acquisite fotografie che ritraevano l'imputato insieme al Salvo, venivano citati gli apporti dei testi m.llo Antonino Pulizzotto, on. Attilio Ruffini, Vittorio De Martino (già maitre dell'Hotel Zagarella), Giovanni Mazzella (allora in servizio presso l'Hotel Zagarella come secondo maitre), dr. Girolamo Di Giovanni (allora Prefetto di Palermo), Sebastiano Conte (già dipendente dell'Hotel con funzioni di barman), Giovan Giuseppe Amalfitano (secondo maitre) e le spontanee dichiarazioni dell'imputato. Secondo il Tribunale, dagli elementi raccolti era emerso che Antonino Salvo, nel caso concreto, aveva posto in essere, oltre a comportamenti riconducibili alla sua qualità di soggetto interessato alla società proprietaria dell'Hotel Zagarella, anche ulteriori condotte inequivocabilmente inquadrabili in una attività di deciso e aperto sostegno alla candidatura dell'on. Lima per le imminenti elezioni europee del giugno 1979. Era certamente questo il significato della presenza di Antonino Salvo al comizio svoltosi all'interno del cinema Nazionale di Palermo, subito prima del ricevimento presso l'Hotel Zagarella: non era dubbio, infatti, che il Salvo, recandosi al comizio, intendesse manifestare pubblicamente il suo appoggio alla candidatura dell'esponente politico che il sen. Andreotti era personalmente venuto a supportare tenendo, in suo favore, il discorso conclusivo della campagna elettorale. Se Antonino Salvo fosse stato interessato semplicemente alla buona riuscita del ricevimento ed alla promozione dell'immagine del proprio albergo, avrebbe scelto di rimanere presso l'Hotel Zagarella per seguire meglio la preparazione del convivio (per la cui organizzazione aveva, oltretutto, già mostrato una forte attenzione ed una particolare sollecitudine, ingerendosi energicamente - per la prima ed unica volta - nelle scelte del gestore e direttore dell'albergo). Chiaramente sintomatico era, poi, il fatto che fosse stato lo stesso Antonino Salvo ad ordinare il banchetto ed a sostenerne successivamente il costo: se si fosse trattato di una normale prestazione alberghiera espletata nei confronti di un partito politico, senza alcun ulteriore interesse di Antonino Salvo, l'ordinativo e la corresponsione del compenso sarebbero stati effettuati da un esponente o da un funzionario del partito. Il contegno effettivamente serbato da Antonino Salvo denotava, invece, la reale natura del suo intervento, palesemente finalizzato all'organizzazione ed al finanziamento di un incontro conviviale assai costoso e strettamente connesso al comizio conclusivo della campagna elettorale dell'on. Lima. Tale essendo il ruolo disimpegnato da Antonino Salvo, tenuto conto degli intensi rapporti (di carattere politico e di amicizia personale) che lo legavano all'on. Salvo Lima, appariva assolutamente illogico che, in presenza di quest'ultimo, lo stesso Antonino Salvo fosse stato presentato al sen. Andreotti esclusivamente come proprietario dell'Hotel Zagarella, sminuendo così vistosamente la rilevante attività da lui svolta - in modo aperto e convinto - in favore del leader della corrente andreottiana in Sicilia, personalmente impegnato nella competizione elettorale. La ricostruzione dell'accaduto prospettata dall'imputato era, altresì, contraddetta dagli ulteriori elementi probatori (già esaminati nel paragrafo 3), che dimostravano che egli, già nel 1976, conosceva Antonino Salvo così bene da avvertire l'esigenza di inviare un dono nuziale in occasione del matrimonio della figlia del medesimo con il dr. Gaetano Sangiorgi. Era, quindi, perfettamente conforme alla realtà la sensazione manifestata dai testi De Martino e Conte, i quali, sulla scorta delle modalità dell'incontro, avevano ritenuto che Antonino Salvo ed il sen. Andreotti già si conoscessero. Le argomentazioni sviluppate inducevano, quindi, a ritenere che l'imputato avesse deliberatamente travisato il reale svolgimento dell'episodio, al fine di negare la sussistenza di ogni rapporto personale e politico con Antonino Salvo.

Nel quinto paragrafo (v. pag. 814 e ss.) veniva trattato l'episodio concernente la telefonata effettuata nel settembre 1983 per conto del sen. Andreotti allo scopo di informarsi sulle condizioni di salute di Giuseppe Cambria, socio dei cugini Salvo. Al riguardo venivano richiamati gli apporti del Dr. Cesare Scardulla, del Dr. Gaspare Scardulla, dell'Isp. Salvatore Bonferrato, di Giuseppe Cambria, del Dr. Michele Vullo, di Giuseppa Puma (vedova di Ignazio Salvo), di Ignazio Salvo, di Antonino Salvo, di Calogero Adamo, del m.llo Antonio Pulizzotto, di Francesco Filippazzo, di Brigida Mangiaracina, di Vincenzo Sinacori, di Giovanni Zanca, di Raffaele Siniscalchi, di Giovanni Brusca, del m.llo Severino Terlizzi, del magg. Luigi Bruno, di Giuseppe Favuzza (genero di Ignazio Salvo) e di Angelo Siino. Dall'insieme degli elementi di convincimento illustrati, secondo il Tribunale, era possibile desumere che Giuseppe Cambria, già nel 1983, era fortemente legato ai cugini Salvo sia sotto il profilo dell'esercizio delle comuni attività imprenditoriali, sia sotto il profilo dell'incisiva influenza esplicata sul piano politico-istituzionale, e manteneva, al pari di loro, intensi rapporti sia con autorevoli esponenti siciliani della corrente andreottiana, sia con soggetti organicamente inseriti in cosche mafiose facenti capo allo schieramento dei "corleonesi". Era, quindi, logico ritenere che la scelta, compiuta da Giuseppe Cambria nelle dichiarazioni rese al PM in data 2 maggio 1996 (il cui verbale era stato acquisito nella udienza dell'11 dicembre 1998 a seguito del rifiuto di rispondere espresso dal medesimo imputato di reato connesso), di negare (in contrasto con le ulteriori risultanze probatorie) di avere ricevuto - per il tramite di un medico del reparto cardiologia - la notizia che l'on. Giulio Andreotti aveva telefonato all'ospedale per chiedere informazioni sul suo stato di salute, fosse stata motivata dalla consapevolezza dell'irriducibile contraddizione riscontrabile tra l'episodio in esame e la tesi difensiva del sen. Andreotti, che aveva escluso di avere intrattenuto rapporti di qualsivoglia natura con i cugini Salvo. Sul punto doveva, infatti, osservarsi che la comunicazione telefonica, sebbene materialmente compiuta da un soggetto appartenente alla segreteria personale del sen. Andreotti, esprimeva inequivocabilmente un preciso interessamento dello stesso uomo politico per le condizioni di salute di una persona strettamente legata ai cugini Salvo sotto ogni profilo (personale, economico-imprenditoriale, politico) ed operante, unitamente ai predetti, in un medesimo contesto di relazioni con ambienti politici ed esponenti della criminalità organizzata. Poteva escludersi con certezza che la richiesta di informazioni sulla salute di Giuseppe Cambria si ricollegasse ad un interessamento di uomini politici diversi dal sen. Andreotti, anche se appartenenti alla sua corrente; non si vedeva, infatti, quale ragione potesse indurre altri esponenti politici a non esplicitare il proprio nome ed a fornire false generalità in una simile comunicazione telefonica, costituente espressione di cordiale vicinanza ed amichevole solidarietà. Non si ravvisava, poi, secondo i primi giudici, il benché minimo motivo che potesse indurre una qualsiasi persona inserita nella segreteria del sen. Andreotti a telefonare per informarsi sulle condizioni di Giuseppe Cambria in mancanza di una iniziativa proveniente dall'imputato. Il significato dell'episodio era stato esattamente interpretato dal dr. Messina, il quale aveva chiarito di avere "identificato nella segreteria l'interessamento dell'onorevole Andreotti". Si trattava, infatti, di una rappresentazione pienamente conforme all'oggettiva valenza di una simile comunicazione telefonica, chiaramente rivolta a manifestare la particolare considerazione in cui l'esponente politico teneva il soggetto allora ricoverato. Quanto alle ragioni dell'interessamento palesato dal sen. Andreotti, per il tramite di un componente della sua segreteria personale, nei confronti di Giuseppe Cambria, veniva rilevato che le stesse non apparivano riconducibili a rapporti diversi rispetto a quelli che legavano l'imputato (sotto il profilo personale e sotto il profilo politico) all'importante centro di potere economico-politico facente capo ai cugini Salvo ed ai soggetti loro vicini. Non erano, infatti, emerse ulteriori situazioni, di conoscenza personale o di altra natura, che potessero indurre il sen. Andreotti a manifestare la propria attenzione verso Giuseppe Cambria nel momento in cui quest'ultimo si trovava ricoverato a seguito di una crisi cardiaca. Ciò era stato implicitamente ammesso dallo stesso imputato, il quale, nelle dichiarazioni spontanee rese all'udienza del 29 ottobre 1998, aveva osservato che Guglielmo Cambria, presente in occasione delle nozze Merlino-Maiolino, <>. Veniva, infine, considerata assolutamente ininfluente la circostanza che il sen. Andreotti in data 6 settembre 1983, alle ore 18.10, fosse partito da Ciampino con un volo del 31° Stormo dell'Aeronautica Militare per recarsi a Madrid ed avesse fatto rientro a Ciampino il successivo 8 settembre alle ore 00.20 (al riguardo veniva fatto riferimento alla documentazione acquisita il 16 settembre 1997): nulla, infatti, escludeva che la comunicazione telefonica in questione fosse stata effettuata anteriormente all'inizio del viaggio, oppure durante la permanenza all'estero, ovvero - su impulso dello stesso esponente politico - da un componente della sua segreteria rimasto in Italia mentre il sen. Andreotti si recava in Spagna.

Il sesto paragrafo (v. pag. 908 e ss.) veniva dedicato alla annotazione del numero telefonico del sen. Andreotti in un'agenda sequestrata ad Ignazio Salvo. Posto che l'agenda in questione, sequestrata in occasione dell'arresto dei cugini Salvo avvenuto il 12 novembre 1984, non era stata rinvenuta e, dunque, non era stata acquisita agli atti, il Tribunale riteneva provata la circostanza sulla scorta delle dichiarazioni, ampiamente richiamate, con cui Laura Iacovoni (vedova del comm. Antonino Cassarà, assassinato in un agguato mafioso nel 1985), Accordino Francesco, già collega di lavoro del Cassarà, e Francesco Forleo, dirigente della Polizia di Stato, avevano riferito su quanto, in merito, appreso da quest'ultimo. I primi giudici concludevano, infatti, che gli elementi probatori raccolti (fra i quali venivano citate anche alcune dichiarazioni dei cugini Salvo) dimostravano la disponibilità, da parte di Ignazio Salvo, del numero telefonico diretto del sen. Andreotti. In sede di commento, veniva riconosciuto alla circostanza uno specifico ed univoco rilievo indiziante in ordine all'esistenza di rapporti personali che consentivano allo stesso Ignazio Salvo di rivolgersi direttamente all'imputato contattandolo per mezzo del telefono. Non poteva, quindi, ritenersi attendibile la versione dei fatti esposta dall'imputato, il quale nelle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 29 ottobre 1998 aveva affermato quanto segue: <>. Era certamente condivisibile il rilievo secondo cui l'annotazione del numero della Presidenza del Consiglio dei Ministri nella rubrica sequestrata al Salvo non valeva a dimostrare l'esistenza di rapporti diretti tra quest'ultimo ed il sen. Andreotti: era, infatti, ben possibile che il possesso di tale numero telefonico si ricollegasse all'attività di lobbying svolta a vasto raggio da Antonino Salvo in funzione dei propri interessi economico-imprenditoriali. Le ulteriori argomentazioni difensive sviluppate dall'imputato non potevano, invece, ritenersi fondate, perché esse erano inequivocabilmente contraddette dalle risultanze processuali, oltre che dagli ulteriori elementi di convincimento (esaminati nelle altre parti del capitolo) che dimostravano l'esistenza di un diretto rapporto personale tra il sen. Andreotti ed Antonino Salvo.

Nel settimo paragrafo (v. pag. 927 e ss.) il Tribunale si occupava della utilizzazione, da parte del sen. Andreotti, di autovetture blindate intestate alla SATRIS S.p.A.. Il fatto veniva ritenuto provato sulla scorta di una serie di apporti: in particolare, venivano richiamate le dichiarazioni rese dal m.llo Antonio Pulizzotto, da Antonino Salvo, da Ignazio Salvo, da Francesco Filippazzo (già autista dell'on. Salvo Lima), da Maria Merlino e dallo stesso imputato. Osservava, infatti, il Tribunale che sulla base della deposizione del teste Filippazzo e dei restanti elementi di prova precedentemente menzionati, era rimasto dimostrato che nei viaggi effettuati dal 5 all'8 luglio 1980 e dal 15 al 18 giugno 1981 il sen. Andreotti aveva utilizzato, per i suoi spostamenti, un'autovettura blindata intestata alla SATRIS S.p.A., chiesta in prestito dall'on. Lima ad Antonino Salvo, e condotta dallo stesso Filippazzo (il quale, in entrambe le circostanze, era rimasto a disposizione dell'imputato per diversi giorni). Trovava, altresì, riscontro nelle dichiarazioni del teste Pulizzotto e nella documentazione fotografica acquisita la circostanza che il sen. Andreotti fosse stato accompagnato dallo stesso Filippazzo presso l'Hotel President di Palermo: era emerso, infatti, che l'8 ed il 9 maggio 1981 il sen. Andreotti aveva pernottato presso l'Hotel President (veniva richiamato il contenuto del registro acquisito nella udienza del 15 gennaio 1998, nel quale erano indicate, come date di arrivo e di partenza del sen. Andreotti, rispettivamente l'8 ed il 10 maggio), dove aveva preso parte ai lavori del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana (come aveva chiarito il teste Pulizzotto nella udienza del 24 febbraio 1997); era stata, inoltre, acquisita una fotografia (foto n. 6 inclusa nella busta n. 31 della documentazione fotografica prodotta dal PM il 12 novembre 1997) che ritraeva il Filippazzo alle spalle del sen. Andreotti all'uscita dell'Hotel President. Non era, però, stato possibile stabilire quale autovettura fosse stata guidata dal Filippazzo in questa occasione. Venivano riportate nella sentenza le dichiarazioni spontanee rese dall'imputato, con riferimento alle circostanze sopra menzionate, nell'udienza del 29 ottobre 1998: <>. La affermazione dell'imputato di avere ignorato a chi appartenessero le autovetture da lui utilizzate nel corso dei suddetti viaggi in Sicilia non era, secondo il Tribunale, verosimile tenendo conto del rapporto personale da lui instaurato con i cugini Salvo e concretatosi - tra l'altro - nell'invio di un dono per le nozze della figlia di Antonino Salvo e nella richiesta di notizie - attraverso la propria segreteria - sulle condizioni di salute di Giuseppe Cambria mentre quest'ultimo si trovava ricoverato in ospedale. In presenza di simili rapporti ed in considerazione dell'importanza del sostegno offerto dai cugini Salvo alla corrente andreottiana in Sicilia e della posizione di rilievo che costoro occupavano nella vita economica dell'isola, non era credibile che il sen. Andreotti non fosse stato informato dall'on. Lima della cortese disponibilità che Antonino Salvo aveva manifestato nei suoi confronti concedendogli la possibilità di utilizzare ripetutamente ed anche per periodi di diversi giorni l'autovettura blindata intestata alla SATRIS S.p.A..

Nell'ottavo paragrafo (v. pag. 944 e ss.) il Tribunale accennava brevemente alle relazioni dei cugini Salvo con Claudio Vitalone, che riteneva comprovate dagli apporti probatori acquisiti. Nell'ambito della trattazione dell'argomento venivano citate indicazioni tratte dalle deposizioni dell'isp. Salvatore Bonferrato, dell'on. Giacomo Mancini, dell'on. Claudio Martelli, dell'on. Sergio Mattarella, dell'on. Vittorio Sbardella (sentito soltanto nel corso delle indagini preliminari - il 31 marzo 1994 - in quanto deceduto), dell'imputato (dinanzi alla Corte di Assise di Perugia), dell'on. Fermo Martinazzoli, del sen. Claudio Vitalone, dell'ing. Franco Maniglia, dell'on. Franco Evangelisti, di Antonio Palma, di Maria Letizia Di Bernardo, dell'avv. Alfonso Tobia Conte, di Giuseppe Pasquale Marra.

Il nono paragrafo (v. pag. 959 e ss.) veniva dedicato alla valutazione delle deposizioni dei familiari dei cugini Salvo, Giuseppa Puma, vedova di Ignazio Salvo, Luigi e Maria Salvo, figli di Ignazio Salvo, Francesca Maria Corleo, vedova di Antonino Salvo, Maria Daniela Salvo, figlia di Antonino Salvo, Giuseppe Favuzza, marito di costei, Salvatore Spedale, genero di Ignazio Salvo. Nel corso della trattazione venivano citate, altresì, dichiarazioni di Antonino Salvo, del prof. Francesco Cavalli e di Gaetano Caltagirone. Il Tribunale non riteneva di riconoscere alcuna valenza probatoria alle negative indicazioni dei predetti familiari dei Salvo circa la conoscenza, da parte di costoro, del sen. Andreotti e ciò sul rilievo che gli stessi avevano manifestato un ridottissimo patrimonio conoscitivo in ordine alle relazioni politiche ed economiche dei propri congiunti. Veniva, poi, osservato che la circostanza che Antonino ed Ignazio Salvo, nelle conversazioni avute in ambito familiare e parentale, usassero indicare il sen. Andreotti facendo riferimento alle sue cariche istituzionali non si poneva in contrasto con le diverse espressioni da essi adoperate nei colloqui con vari esponenti mafiosi. Doveva, infatti, rilevarsi che, in questo secondo contesto relazionale, l'uso del nome proprio e del termine "zio", da parte di Antonino ed Ignazio Salvo, per designare il sen. Andreotti era chiaramente finalizzato ad ingenerare negli interlocutori il convincimento di parlare con persone aventi un rapporto di particolare confidenza con il predetto uomo politico (scopo, questo, certamente assente nelle conversazioni svoltesi nell'ambito familiare); il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino aveva, inoltre, chiarito che il termine "zio", impiegato da Antonino Salvo, intendeva esprimere un atteggiamento di rispetto verso il sen. Andreotti.


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