SENTENZA
ANDREOTTI_PECORELLI 1
N. 1/94 RG.
Notizie di reato P. M D.D.A. N 4/95 R.G. Trib. Corte Assise e N. 5/95
R.G.; N.1/96 R.G.;
N. 2/96 R.G. riuniti. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Assise di Perugia composto dai Signori: Dott.GIANCARLO ORZELLA
Presidente Dott.NICOLA ROTUNNO Giudice Sig. GILBERTO GATTICCHI Giudice
Pop. D.ssa ANNA RITA CATALDO " " Sig. ALBERTO ALUNNI " " Dott. MARCELLO
FICOLA " " Sig.ra IVANA BEI " " Sig. STEFANO AVELLINI "
" ha pronunciato e pubblicato in data 24.9.1999 la seguente S E N T E
N Z A Nei confronti di:
1) CALO’ Giuseppe, nato a Palermo il 30.9.1951, ivi residente P.zza Giuseppe
Verdi, 6; attualmente detenuto p.a.c. presso Casa Reclusione di Spoleto.
Rinunciante a comparire – DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Rosa CONTI del Foro
di Perugia e Avv. Corrado OLIVIERO del Foro di Roma sostituito in udienza
dall’Avv. Walter BISCOTTI del Foro di Perugia;
2) ANDREOTTI Giulio, nato a Roma il 14.1.1919 elettt.te domiciliato c/o
lo studio del difensore Avv. Franco Coppi in Roma Via Arno, 21 libero
non comparso – (già presente all’ud. del 11.4.1996) DIFENSORI DI FIDUCIA:
Avv. Franco COPPI del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Giovanni
BELLINI del Foro di Perugia e Avv. Odoardo ASCARI del Foro di Modena sostituito
in udienza daal’Avv.Stelio ZAGANELLI del Foro di Perugia.
3) VITALONE Claudio, nato a Reggio Calabria il 7.7.1936 elett.te domiciliato
c/o lo studio del difensore Avv. Carlo Taormina in Roma Via Federico Cesi,
21 libero presente – DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Carlo TAORMINA del Foro
di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Maurilio PRIORESCHI del Foro di
Roma e Avv. Alberto BIFFANI del Foro di Roma sostituito dall’Avv. Arturo
BONSIGNORE del Foro di Perugia.
4) CARMINATI Massimo, nato a Milano il 31.5.1958, elett.te domiciliato
a Formello (Roma) Via Maiano, 48 (dom.eletto alla scarcerazione) Libero
non comparso – (già presente all’ud. del 9.9.96). DIFENSORI DI FIDUCIA:
Avv. Giosuè Bruno NASO e Avv. Giuseppe VALENTINO entrambi del Foro di
Roma.
5) BADALAMENTI Gaetano, nato a Cinisi (PA) il 14.9.1923 in atto detenuto
presso il Penitenziario di Fairton (U.S.A.), elett.te dom.to in Italia
a Cinisi (PA) Corso Umberto n. 183 presso la moglie VITALE Teresa. Detenuto
p.a.c. – ( dichiarato contumace all’ud. del 6.6.96) DIFENSORE DI FIDUCIA:
Avv. Paolo GULLO del Foro di Palermo, sostituito in udienza dall’Avv.
Silvia EGIDI del Foro di Perugia.
6) LA BARBERA Michelangelo, nato a Palermo il 10.9.1943 ivi residente
Via Castellana, 346 attualmente detenuto p.a.c. presso Casa C.le di Palermo
-detenuto p.a.c. rinunciante a comparire – (già presente all’ud. del 1.7.96)
DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Angelo BARONE del Foro di Palermo e Avv. Daniela
Paccoi del Foro di Perugia.
PARTI
CIVILI: Avv. Claudio FERRAZZA del Foro di Roma difensore e Procuratore
Speciale di PECORELLI Rosina; Avv. Alfredo GALASSO del Foro di Roma sostituito
in udienza dall’Avv. Francesco CRISI del Foro di Perugia;
difensore e Procuratore Speciale di PECORELLI Andrea RUSSO Liliana ved.
PECORELLI rappresentata e difesa dall’Avv. Raffaele CAMPIONI del Foro
di Roma.
PECORELLI Stefano rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco CRISI del
Foro di Perugia.
I M P U T
A T I Per il reato di cui agli artt. 110, 112 n.1, 575, 577 n. 3 c.p.
per avere, agendo in concorso con BADALAMENTI Gaetano, CALO’ Giuseppe,
ANDREOTTI Giulio, VITALONE Claudio, LA BARBERA Michelangelo e con ignoti,
i primi quattro quali mandanti, il LA BARBERA e il CARMINATI quali esecutori
materiali, nonché con SALVO Antonino, SALVO Ignazio, BONTATE Stefano,
INZERILLO Salvatore, ABBRUCIATI Danilo, GIUSEPPUCCI Franco (questi ultimi
sei tutti deceduti), cagionato con premeditazione la Morte di PECORELLI
Carmine mediante quattro colpi di pistola. In Roma 20.3.1979.
CON L’INTERVENTO
DEI PUBBLICI MINISTERI: Dr. Fausto CARDELLA e Dr. Alessandro CANNEVALE
LE PARTI COSI’ CONCLUDONO: IL P.M: chiede affermarsi la responsabilità
di tutti gli imputati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti
e la condanna alla pena dell’ergastolo, pene accessorie come per legge.
I DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI: l’Avv. Galasso per Pecorelli Andrea chiede
che gli imputati siano condannati con concessione di una provvisionale
che si ritiene equo quantificare in L. 500.000.000, con condanna alla
refusione delle spese di giudizio. L’Avv. Ferraza per Pecorelli Rosina
chiede la condanna di tutti gli imputat ial risarcimento in solido di
tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dal Sig. Andrea
Pecorelli, si chiede altresì che gli imputati siano condannati al risarcimento
di una provvisionale in favore della Sig.ra Pecorelli Rosina da quantificare
in L. 500.000.000 con refusione delle spese di giudizio.
L’Avv. Crisi per Stefano Pecorelli chiede la condanna di tutti gli imputati
al risarcimento in solido di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali
e alla concessione di una provvisionale in favore di Stefano Pecorelli
da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle spese di giudizio.
L’Avv. Campioni per la parte civile Russo Liliana: chiede la condanna
degli imputati in solido al risarcimento di tutti i danni patrimoniali
e non patrimoniali sofferti dalla Sig:ra Russo e alla concessione di una
provvisionale da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle
spese di giudizio.
I DIFENSORI
DEGLI IMPUTATI: L’Avv. Oliviero e l’Avv. Conti per Calo’ chiedono l’assoluzione
per non aver commesso il fatto. L’Avv. Barone per La Barbera chiede l’assoluzione
per non aver commesso il fatto. L’Avv. Coppi per Andreotti chiede l’assoluzione
con formula piena. Gli Avvti Bellini, Zaganelli e Ascari per Andreotti
chiedono assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Biffani per
Vitalone chiede l’assoluzione con la formula più ampia. L’Avv. Egidi per
Badalamenti chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv.
Paccoi per La Barbera chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.
L’Avv. Naso per Carminati chiede l’assoluzione per non aver commesso il
fatto.
CAPITOLO
01) VOLGIMENTO DEL PROCESSO
Si è celebrato,
oggi, nella contumacia di BADALAMENTI GAETANO, il processo a carico dello
stesso, nonché di ANDREOTTI GIULIO, VITALONE CLAUDIO, CALO’ GUSEPPE, LA
BARBERA GAETANO e CARMINATI MASSIMO tutti chiamati a rispondere in concorso
tra loro e con altri nelle more deceduti, del reato loro ascritto in rubrica.
Il processo, iniziato nell’aprile 1996, ha visto, a quella, udienza la
costituzione di parte civile della sorella, della moglie e dei figli di
Pecorelli Carmine; esso, poi, è stato immediatamente sospeso e rinviato
a giugno dello stesso anno per la dichiarazione di astensione del presidente
e del giudice aggregato e per la loro sostituzione per cui il collegio
si è formato nella attuale composizione.
Il PM esponeva i fatti e chiedeva la ammissione delle prove consistenti
nella produzione di una imponente documentazione, nella richiesta di escussione
testimoniale di numerosissime persone informate sui fatti e nell’esame
degli imputati. Nessuna prova diretta era fatta dai difensori delle parti
civili. Richiesta di ammissione di documenti e di prove per testi era
fatta dai difensori degli imputati ad eccezione di Badalamenti Gaetano.
La Corte ammetteva le prove richieste e provvedeva alla escussione dei
testimoni ad eccezione di quelli per i quali vi era stata rinunzia della
parte richiedente, accettata espressamente dalle altre parti e ritenute
dalla Corte non necessarie per la comprensione dei fatti. Nel corso del
dibattimento erano anche acquisiti documenti e ammessi testimoni de relato
o il cui nome era emerso dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento.
La Corte esercitava anche il suo potere ex art. 507 cpp disponendo alcune
perizie e l’audizione di alcun testimoni. All’esito del dibattimento il
PM, le parti civili e i difensori degli imputati concludevano come in
atti.
CAPITOLO
02) PREMESSA
La molteplicità
degli eventi che sono stati sottoposti all’esame della corte e che dalla
stessa sono stati esaminati per la ricostruzione della vicenda, i problemi
della valutazione della prova connessi alla mutevole posizione assunta
nel corso del dibattimento da alcune persone che hanno reso deposizione
rende necessario individuare la sequenza dei temi che devono essere trattati
al fine di dare organicità alla esposizione della vicenda per una sua
migliore comprensione secondo la decisione di questa corte di assise.
La sentenza, per le argomentazioni difensive svolte da talune delle difese,
contiene preliminarmente alcune considerazioni di carattere generale e
la indicazione dei criteri normativi di interpretazione del materiale
probatorio. A tali punti di carattere generale seguirà la ricostruzione
del fatto, la descrizione, secondo il giudizio della corte, della personalità
di Carmine Pecorelli, i suoi interessi al momento della morte, i possibili
moventi e la loro riferibilità, la possibilità per Carmine Pecorelli di
conoscere ulteriori notizie in ordine alle vicende individuate come possibili
moventi, gli eventi rilevanti per l’omicidio, la individuazione e descrizione
delle organizzazioni criminali, la partecipazione a tale organizzazione
delle persone che hanno reso dichiarazioni su quel punto, la loro credibilità
e attendibilità, la possibilità che fosse richiesta l’uccisione di Carmine
Pecorelli, la matrice del delitto.
CAPITOLO
03) CONSIDERAZIONI GENERALI
Una prima
considerazione, in relazione ad affermazioni che più volte sono riecheggiate
nell’aula e segnatamente nella discussione ad opera di talune parti sia
private che pubbliche è relativa all’oggetto della decisione di questa
corte di assise. La corte di assise di Perugia ha il dovere, unico ed
esclusivo, di dare una risposta al quesito giuridico che le è stato posto
e cioè se gli attuali imputati nel loro complesso o partitamente sono
responsabili della uccisione di Carmine Pecorelli. Tale risposta deve,
necessariamente, prescindere dalle qualità personali, dall’inserimento
o meno di taluni imputati in posizione di vertice in organizzazioni criminali
di particolare pericolosità o dalla attività politica di taluni degli
imputati; tali caratteristiche potranno e saranno prese in considerazione
solo quando esse hanno attinenza, e nei limiti in cui l’avranno, con i
temi probatori che saranno affrontati dalla corte per essere stati portati
al suo esame.
E’, quindi, errato, a giudizio della corte, fare riferimento a un processo
politico e vedere nell’esercizio dell’azione penale lo strumento per una
persecuzione politica nei confronti di tali imputati; il riferimento non
può essere che a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone che nella loro vita
hanno ricoperto cariche pubbliche ai massimi livelli (il primo da oltre
cinquanta anni svolge attività politica e ha ricoperto quasi ininterrottamente
cariche pubbliche ai massimi vertici amministrativi e politici come presidente
del consiglio dei ministri o ministro ed il secondo ha ricoperto prima
la carica di sottosegretario e poi di ministro della Repubblica Italiana).
Parimenti errato è la considerazione che la decisione (evidentemente temuta
sfavorevole) sarà frutto dell’inserimento degli imputati in organizzazioni
criminali come "Cosa Nostra" o c.d. "Banda della Magliana" o organizzazioni
eversive della estrema destra.
Conseguenza diretta della prima affermazione è stato l’insistente richiamo
alla corte di assise al rispetto delle regole giuridiche nella formazione
della propria decisione, per evitare che la sentenza sia uno strumento
improprio utilizzato per raggiungere fini non compatibili con l’esercizio
della giurisdizione ma propri della lotta politica tesa ad eliminare scomodi
avversari politici come gli attuali imputati. Sul punto ritiene la corte
che, in uno stato di diritto quale è quello italiano, dove il principio
della separazione dei poteri e della autonomia della magistratura sono
valori costituzionali, ipotizzare una simile evenienza è agghiacciante
e fuori dalla realtà presupponendo, sulla base di un convincimento aprioristicamente
formatosi per il solo fatto che nei confronti di taluni imputati è stata
iniziata l’azione penale, una perversa mala fede nei confronti non solo
dei giudici togati ma anche dei semplici cittadini che hanno avuto la
ventura di essere sorteggiati come giudici popolari per questo processo.
Né vale sostenere che la critica non è diretta al collegio giudicante
perché la diversa angolazione della critica non sposta il problema stante
la natura pubblica della accusa e gli obblighi su di essa gravanti. L’osservazione
sopra fatta in ordine al richiamo al rispetto delle regole che sovrintendono
alla decisione che sarebbero violate per fini politici in una con quella
della personalizzazione del confronto con i singoli magistrati che hanno
impersonato l’ufficio dell’accusa, malgrado il ripetuto richiamo del presidente
della corte a rivolgersi impersonalmente all’ufficio della pubblica accusa,
conduce ad una terza affermazione di talune delle difese: la esistenza
di un complotto nei confronti di alcuni imputati; è ben vero che il termine
complotto è stato mitigato nella discussione ed è stato sostituito con
quello di "eccesso di zelo ambientale", ma la sostanza non cambia, come
non cambia la sostanza delle cose il fatto che Giulio Andreotti nel suo
esame non ha mai parlato di complotto ai suoi danni, ma quando si chiede
(retoricamente a giudizio della Corte) chi ci sia dietro a coloro che
lo accusano inevitabilmente l’affermazione della esistenza di un complotto
torna implicitamente e prepotentemente alla ribalta.
Sul punto la Corte ritiene che una tale affermazione sia infondata. Invero
ad escludere una simile ipotesi è sufficienti considerare: le dichiarazioni
relative a fatti importanti per questo processo sono state rese da numerose
persone, appartenenti a ceti sociali tra loro diversissimi, che non si
conoscevano e non avevano tra loro rapporti; persone che non avevano motivo
di rancore o odio nei confronti degli imputati a punto tale da volere
la loro condanna all’ergastolo per un reato così grave come l’omicidio
premeditato ovvero specifiche ragioni per mentire anche in considerazione
che alcune di esse erano e sono ancora amici degli imputati; persone che
hanno raccontato cose da loro vissute o apprese in tempi non sospetti
per cui è da escludere un complotto ordito da tali persone. Esso poi avrebbe
avuto necessità di una pluralità di persone, tutte d’accordo nel tramare
contro gli imputati, per impedire che la trama fosse scoperta.
L’ipotesi francamente non è credibile atteso, anche, che per una tale
evenienza sarebbe stato necessario che l’opera di cospirazione delle persone
informate sui fatti avesse come avallanti una pluralità di organi investigativi
(nell’ambito di ciascuno di essi tutte le persone che si sono occupate
a vario titolo dell’inchiesta nella fase delle indagini preliminare) e
una pluralità di pubblici ministeri che facendo parte di più procure si
sono occupate dell’inchiesta o di filoni di essa (in specie la procura
di Roma naturale giudice competente dell’inchiesta dopo le dichiarazioni
di Tommaso Buscetta, quella di Perugia dopo il coinvolgimento nell’inchiesta
di Claudio Vitalone sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale
di Roma al momento dell’omicidio di Carmine Pecorelli e la procura della
repubblica presso il tribunale di Palermo competente per il reato di concorso
in associazione mafiosa a carico di Giulio Andreotti del cui processo
molti atti sono confluiti in questo pendente avanti alla Corte di Assise
di Perugia.
Né può pensarsi che il complotto sia organizzato e gestito dalle persone
che hanno avuto la conduzione delle indagini perché, anche in questo caso,
sarebbe stato necessario il consenso e la connivenza delle persone informate
sui fatti che a vario titolo hanno reso deposizioni in questo processo.
Se effettivamente fosse esistito un complotto in danno di taluni degli
imputati esso sarebbe stato ordito sicuramente meglio e non si sarebbero
verificate quelle vistose smagliature che sono proprio il segno della
mancanza di un previo accordo; non appare credibile che un "cospiratore",
appena attento alle dinamiche del processo, organizzerebbe un complotto
architettando una serie di circostanze che hanno prestato il fianco a
tutte una serie di critiche, censure, e contraddizioni come quelle che
fanno dire a Fabiola Moretti di avere visto Massimo Carminati ferito all'occhio
o meglio che Danilo Abbruciati ha visto Massimo Carminati ferito all'occhio,
ovvero che fa dire a Vittorio Carnovale che Danilo Abbruciati ed Enrico
De Pedis erano sul luogo dell'omicidio (la credibilità di Vittorio Carnovale
nella ipotesi del complotto è fattore essenziale perché è il primo che
introduce Vitalone Claudio nel processo affidandogli un ruolo di mandante
intermedio per cui l’organizzatore del complotto, se voleva che esso andasse
a buon fine, doveva indottrinarlo ben bene facendogli dire circostanze
che dovevano reggere ad una successiva e rigorosa verifica di riscontro
e non cadere miseramente al primo controllo) o ancora che non si accerti
della esistenza e della agibilità del ristorante La lampara, ove sarebbero
avvenuti gli incontri tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone, prima di
fare dichiarare tali circostanze a Fabiola Moretti.
La indicazione nel verbale di assunzione di Antonio Mancini del 27.1.1994
e in quello di Fabiola Moretti del 5.5.1994 ore 22.00 della lettura delle
dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale (relativamente al verbale sottoscritto
da Antonio Mancini)e di Antonio Mancini (relativamente al verbale sottoscritto
da Fabiola Moretti).
Se effettivamente vi fosse stato un complotto a cui avrebbero partecipato,
necessariamente, i coimputati in procedimento collegato probatoriamente
che sono la fonte primaria delle accuse, non vi sarebbe stata migliore
occasione che leggere e fare conoscere a Antonio Mancini le dichiarazioni
di Vittorio Carnovale e a Fabiola Moretti quelle rese da Antonio Mancini
senza darne atto a verbale creando così le premesse di una solida prova
basata sul riscontro incrociato delle dichiarazioni e sulla loro autonomia.
La critica all’operato del PM non è condivisa da questa Corte neppure
sotto il profilo (concetto espresso dalla difesa di Claudio Vitalone)
"dell’eccesso di zelo ambientale" e della mancanza di indagini in altre
direzioni. E’ ben vero che l’indagine ha avuto ad oggetto principalmente
la persona di Claudio Vitalone e che tale indagine è stata particolarmente
penetrante, ma ciò, a parere della corte, è una conseguenza della centralità
del suo ruolo nella vicenda. Ruolo di mandante intermedio e di cerniera
tra i due gruppi criminali che, secondo l’impianto accusatorio, avrebbero
organizzato ed eseguito il delitto. Di qui la necessità di ogni possibile
verifica, a fronte dei dinieghi da parte di Claudio Vitalone di un suo
pur minimo coinvolgimento, di fatti che confermassero aliunde le circostanze
accusatorie (in tal senso devono essere intese le indagini relative alla
contemporanea presenza a Lipari della barca di Ignazio Salvo e di Claudio
Vitalone nel 1992 stante l’affermazione di questo ultimo di non avere
mai conosciuto i cugini Salvo ovvero le indagini svolte sulla morte di
Nada Grohovac atteso che la conferma della esistenza di un qualche rapporto
–indipendentemente dalle cause della sua morte- tra la Grohovac e Wilfredo
Vitalone sarebbe stata un forte riscontro esterno alle dichiarazioni di
Fabiola Moretti sulla esistenza di rapporti tra Enrico De Pedis e Claudio
Vitalone come affermato nei suoi interrogatori, e, quindi, un notevole
apporto probatorio alle indagini).
E’ altresì vero che l’indagine presenta delle carenze ma esse sono ampiamente
spiegabili con la complessità dell’indagine e con il notevole lasso di
tempo che è passato dal giorno del tragico evento, che a distanza di venti
anni è ancora avvolto da una fitta nebbia di mistero, e le pressioni esercitate
per arrivare alla soluzione del caso mai sono state fatte per fare dichiarare
cose diverse da quelle che realmente la persona sapeva (significativo
al riguardo è il frammento di intercettazione in casa di Fabiola Moretti
la quale mentre si sta allontanando per recarsi in una località protetta
si rivolge ad Alfredo Fiorelli, capo della DIA di Roma, per dirgli di
essersi ricordata che in quel periodo Danilo Abbruciati era in prigione
e riceve, come risposta, che la circostanza deve riferirla al giudice
al quale deve dire solo le cose che sa e che ricorda). Deve, peraltro,
darsi atto che l’indagine portata avanti con determinazione dalla procura
della repubblica di Perugia, malgrado le lacune riscontrate, in relazione
al vuoto istruttorio in cui si è dibattuta per anni l’inchiesta condotta
dal PM di Roma prima della riapertura delle indagini (significative sono
le circostanze che mai prima dell’attuale indagine è stato sentito Umberto
Limongelli collaboratore, oltre che cugino, della vittima, il quale aveva
da riferire di un pacco consegnato lo stesso giorno alla tipografia Abete
che stampava OP e mai più reperito con i mancati accertamenti su un fatto
che poteva avere una certa rilevanza per la soluzione del caso; o, ancora,
il ritardo con cui è stata sentita la sorella di Carmine Pecorelli, Rosina,
e la mancata audizione di Donato Lo Prete che pure risultava invitato
alla cena presso il ristorante La Famiglia Piemontese a cui aveva preso
parte lo stesso Carmine Pecorelli), è il tentativo più serio per arrivare
alla scoperta degli autori del delitto che, per le ragioni che saranno
dette in seguito, non sono stati individuati, da questa corte, negli attuali
imputati.
CAPITOLO
04) CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA PROVA
La corte
sul punto ritiene di dovere affrontare solo alcuni punti trattandosi per
il resto di normali criteri di valutazione del materiale probatorio e
precisamente: I criteri di valutazione delle dichiarazioni rese da persone
indagate o imputate in procedimenti connessi o probatoriamente collegati
(indipendentemente dalla circostanza che essi sono o meno sottoposti a
regime di protezione). Sul tale argomento, va osservato quanto segue.
La questione, travagliata sotto il vigore dell'abrogato codice (segno
che il problema è sempre esistito) è stata risolta dal legislatore che
all'art. 192 comma 3 e 4 cpp, recependo peraltro le indicazioni emerse
dalla precedente interpretazione giurisprudenziale, ha stabilito che le
dichiarazioni rese da coimputato in procedimento connesso o probatoriamente
collegato sono valutate unitariamente agli altri elementi di prova che
ne confermino l’attendibilità.
Dalla lettera della norma e dalla sua collocazione in un comma diverso
da quello in cui si dà valenza agli indizi si evince che la chiamata in
correità o in reità è una vera e propria fonte di prova nei cui confronti
però il legislatore mostra diffidenza tanto da circondarla, quanto al
suo valore probatorio, di particolari cautele chiedendo che essa sia confermata,
quanto alla sua attendibilità, da altri elementi di prova; l’assunto è
oramai pacificamente accettato in dottrina e in giurisprudenza per cui
non occorre soffermarsi oltre. Elementi di prova che devono, peraltro,
essere desunti ab extrinseco e non dalla stessa dichiarazione accusatoria,
devono essere specifici, concreti e autonomamente certi e non presentare
carattere di ambiguità risolvibile utilizzando come unico sostegno interpretativo
il contenuto della chiamata di reità da riscontrare e possono essere i
più vari, non avendo il legislatore tipizzato la loro natura. Peraltro
tali elementi di prova, in caso di chiamate plurime devono riguardare
ciascun reato e ciascun imputato, non devono raggiungere il valore di
prova autonoma altrimenti sarebbe questa ultima, da sola, sufficiente
per affermare o escludere la responsabilità. Quanto alla natura di tali
elementi di prova essi possono essere oggettivi e sufficienti a dare riscontro
alla chiamata di correità ovvero soggettivi provenienti, cioè, da dichiarazioni
di altri coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato.
Va poi precisato che il riscontro obbiettivo esterno alla chiamata di
correità o di reità deve essere certo e non possibile o concettuale anche
se esso può vertere su un elemento non strettamente correlato alla imputazione
ma necessario, insieme ad altri elementi, per una valutazione globale
ed unitaria della prova. Va altresì precisato, quanto alla chiamata di
correità o di reità plurima o successiva che esse devono essere estrinsecamente
autonome e non frutto di collusione o di condizionamento per assurgere
sotto il profilo logico giuridico, a dato di riscontro e di verifica della
prima; in caso contrario vanno considerate come una unica chiamata di
correità o di reità e come tale bisognevole a sua volta di riscontri esterni
alle chiamate stesse. Va ancora detto che nelle versioni date da diversi
coimputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato possono
verificarsi discrepanze; tali discrepanze assumono rilievo sulla loro
attendibilità quando vertono su circostanze rilevanti, se non proprio
fondamentali, per il processo mentre se vertono su particolari di scarso
rilievo lungi dall’incidere sulla loro attendibilità, sono il segno e
il sintomo di una autonomia di conoscenza della stessa circostanza e ciò
può influire sulla reciproca valenza probatoria delle singole dichiarazioni.
Quello che si è fino ad ora detto attiene al valore probatorio della chiamata
in correità o in reità; ciò non significa che preliminare al riscontro
oggettivo delle affermazioni del chiamante in correità o in reità debba
accertarsi - alla pari dell'accertamento della attendibilità di qualsiasi
persona esaminata nel processo - la sua attendibilità intrinseca. Attendibilità
che va tenuta ben distinta dai motivi che hanno portato il coimputato
o l'imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente a rendere
dichiarazioni accusatorie. Tali motivi attengono alla sfera interiore
del chiamante e possono variare da un calcolo utilitaristico (come la
percezione di contributi a carico dello stato o la esclusione di condizioni
carcerarie particolarmente dure), al vero pentimento e al desiderio di
uscire dal mondo della delinquenza. Essi sono indifferenti per il diritto
perché il legislatore nel disciplinare il mezzo di prova ha richiesto
solamente che il chiamante sia attendibile e che le sue dichiarazioni
siano riscontrate e devono presentare caratteristiche di convergenza in
ordine al fatto materiale della narrazione, di indipendenza nel senso
sopra enunciato, e di specificità nel senso che la cosiddetta convergenza
del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante ossia devono
confluire su fatti che riguardano direttamente l’incolpato e l’imputazione
a lui attribuita.
Cioè posto, e in aderenza ai criteri elaborati dalla suprema corte che
ha avuto modo di interessarsi ripetutamente del problema, l'attendibilità,
la credibilità di tali soggetti va valutata in modo rigoroso per cui le
loro dichiarazioni devono, per essere meritevole di considerazione, apparire
- a causa della loro genuinità, specificità, coerenza, univocità, costanza,
spontaneità e disinteresse - serie e precise. In particolare l’attendibilità
del dichiarante va posta in discussione ogni qual volta le sue affermazioni
possono essere ispirate da desiderio di vendetta, di copertura di complici
od amici, da compiacimento verso gli organi di polizia o dell’accusa Va
ancora precisato, sul punto, che per la credibilità generale o intrinseca
del chiamante in correità o in reità non viene scalfita da piccole incoerenze
o contrasti con altri elementi probatori acquisiti al processo purché
le dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità dei chiamati in correità
o in reità trovi il supporto dei riscontri oggettivi.
Quanto sopra detto esclude che la corte aderisca alla tesi, prospettata
dalla corte di assise di Catania del 12 maggio 1995 e fatta propria dal
difensore di Gaetano Badalamenti e Michelangelo La Barbera che non esiste
il disinteresse dei collaboratori di giustizia perché essi hanno sempre
un interesse, legislativamente previsto, ad accusare in correità o in
reità dipendendo dal loro obbligo di dire tutto quello che sanno il godimento
di benefici sia processuali che extra processuali. Ritiene infatti la
Corte che il disinteresse richiesto per la credibilità del chiamante in
correità o in reità non va identificato con la mancata fruizione di agevolazioni
o benefici, che essendo legislativamente previsti sono comuni a tutti
i chiamanti in reità di talché se il primo si identificasse con l’assenza
dei secondi, si verrebbero di fatto ad escludere dalle fonti di prova
le deposizioni dei chiamanti in reità o in correità; il fatto, al contrario,
che il legislatore ha previsto e disciplinato autonomamente questa fonte
di prova è il segno che il disinteresse richiesto per affermare la credibilità
del dichiarante deve consistere in qualcosa di diverso e riguardare espressamente
i fatti che il chiamante in reità o correità va a raccontare. In sostanza,
il disinteresse richiesto, a parere della corte, va identificato nella
assenza di intenti calunniatori o nella mancanza di un vantaggio personale,
in relazione ai fatti narrati, che da tale dichiarazione può derivare
al chiamante in reità o in correità.
Ritenere il contrario, significa svuotare di ogni significato e sostanza
la legge che prevede espressamente per coloro che collaborano con la giustizia
la corresponsione di benefici di natura patrimoniale e il godimento di
benefici di natura processuale. Le considerazioni sopra fatte rendono
sterile, a giudizio della corte, la disputa sul fenomeno del c.d. pentitismo
perché esso è estraneo al processo; fino a quando il legislatore non interviene
sulle modalità di gestione dei collaboratori di giustizia, fino a quanto
il legislatore non modifica i criteri di valutazione della prova fornita
dai chiamanti in reità o in correità, la corte, proprio in ossequio al
tanto invocato principio del rispetto delle norme, deve tenere conto,
nella valutazione complessiva della prova, anche delle dichiarazioni dei
chiamanti in correità o in reità applicando ad esse quei criteri interpretativi
di cui sopra si è detto. Una ultima annotazione di carattere generale,
perché comune a tutti i coimputati in procedimento connesso o probatoriamente
collegato e anche a molti testimoni che hanno avuto esperienze carcerarie
e cioè che non può assumere alcun rilievo, ai fini della valutazione delle
dichiarazioni accusatorie la personalità negativa dei dichiaranti essendo
questa un connotazione comune a tutti coloro che sono imputati nello stesso
reato o in reati connessi o a quelli collegati in quanto il legislatore,
nel dettare le norme per la valutazione della loro attendibilità, ha introdotto
dei criteri limitativi della valenza probatoria.
Ciò per contrastare la tesi difensiva secondo cui la provenienza dei chiamanti
in reità dal mondo della malavita organizzata escluda, per questo solo
fatto, la loro credibilità a fronte delle dichiarazioni degli imputati
specchiati e stimati cittadini. Connesso al problema della attendibilità
degli imputati in procedimento connesso o collegato probatoriamente è
quello relativo all’influenza che su tale giudizio deriva dal giudizio
espresso da altre autorità giudiziarie sulla attendibilità dello stesso
imputato. Sul punto la corte ritiene che il giudizio di attendibilità
o di inattendibilità dell’imputato in procedimento connesso o collegato
già espresso da altro organo giudicante non sia vincolante e che il nuovo
organo giudicante possa e debba fare un nuovo giudizio di attendibilità
anche alla luce di nuovi (eventuali) fatti che possono mutare tale giudizio.
In aderenza a tale principio questa corte non è tenuta ad aderire pedissequamente
a tali giudizi (trattandosi proprio di giudizi), ma ciò non esclude che
gli elementi di fatto posti a base del giudizio di attendibilità espresso
da altri organi giudicanti possano e debbano essere tenuti presenti nel
formulare il proprio giudizio sulla attendibilità (o inattendibilità)
del chiamante in reità o in correità per giungere, indifferentemente,
ad un giudizio analogo o diverso.
Il regime probatorio delle dichiarazioni di persone che nel corso del
dibattimento hanno modificato la loro posizione da persona indagata in
procedimento connesso o collegato in quella di testimone. Si è infatti
rilevato che Fabiola Moretti e Tommaso Buscetta, escussi nel corso delle
indagini preliminari ai sensi dell’art. 210 cpp stante il collegamento
probatorio tra il reato di partecipazione a Cosa Nostra o alla associazione
criminale operante in Roma all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli,
detta d’ora in avanti per comodità banda della Magliana, loro ascritto
e quello per cui è processo hanno perso tale qualifica essendo venuta
meno, per definizione della loro posizione, la qualifica di imputato in
procedimento collegato probatoriamente. Partecipazione che deve ritenersi
cessata, salvo prova contraria, al momento in cui essi si sono dissociati
dal sodalizio criminale collaborando con gli organi inquirenti.
In tal caso ritiene il collegio che la loro deposizione deve essere valutata
come testimonianza, anche se sottoposta a particolare vaglio stante le
modalità dell’originaria assunzione che svincolava la persona che rendeva
dichiarazioni da conseguenze giuridiche in caso di mendacio o reticenza,
dovendosi applicare il principio "tempus regit actum" e cioè dovendosi
applicare la disciplina che regola la posizione processuale del soggetto
da esaminare al momento della sua assunzione. Ciò, vale in particolare
per Fabiola Moretti che nel corso del suo esame ha posto in essere una
"sceneggiata" per giustificare la sua volontà di non riferire alla Corte
quello che effettivamente sapeva e sottrarsi quindi al legittimo contraddittorio
delle parti. "Sceneggiata" che ha comportato, come meglio sarà detto in
seguito, la trasmissione degli atti al PM per il reato di reticenza ai
sensi dell’art. 372 cp.
Porta a questa conclusione una corretta interpretazione dell’art. 197
cpp. Invero (sul punto la corte richiama le numerose ordinanze emesse
nel corso del dibattimento in cui ha chiarito il diverso regime che governa
l’assunzione della prova nel caso che la persona sia stata qualificata
imputata o indagata di procedimento connesso o di procedimento probatoriamente
collegato e le conferma integralmente), l’incompatibilità alla testimonianza
di cui al citato art. 197 cpp postula prima di tutto che sia stata assunta
effettivamente la qualità di indagato, e non anche che vi sia la mera
possibilità che ciò avvenga, e che tale qualifica sia ancora attuale al
momento della assunzione della deposizione. Si tratta dunque di stabilire
in via generale se l’incompatibilità permanga anche dopo l’eventuale provvedimento
di archiviazione o di conclusione in via definitiva del processo. Esaminando
la questione nei suoi vari aspetti, va osservato come la norma de qua
tanto alla lettera a), concernente la connessione, quanto alla lettera
b), concernente il collegamento, faccia riferimento alla qualità di imputato,
cioè a quella particolare condizione che si acquisisce per effetto dell’attribuzione
della formale imputazione in uno degli atti tipici indicati dall’art.
60 cpp. Muovendo da tale osservazione e dall’ulteriore considerazione
del carattere di norma eccezionale, attribuibile all’art. 197 cpp, la
Suprema Corte in una prima pronuncia aveva ritenuto che l’incompatibilità
non possa essere estesa oltre i limiti risultanti dalla norma e che in
particolare non possa applicarsi a chi rivesta la mera qualità di indagato,
tanto meno dopo un provvedimento di archiviazione (Cass. I, 28-9-1992,
Perruzza).
In realtà, al di là del carattere eccezionale dell’art. 197 cpp, militava
in tale direzione una valutazione complessiva del sistema. Infatti la
qualità di indagato si acquista per effetto della mera iscrizione da parte
del P.M. nel registro di cui all’art. 335 cpp. Ma tale iscrizione, contrariamente
all’assunzione della qualità di imputato, potrebbe restare sconosciuta
a tutti, compreso il diretto interessato, ed anzi, a rigore, dovrebbe
rimanerlo, salvo il caso del compimento di determinati atti di indagine.
A seguito della riforma introdotta ex lege 332/95 è oggi possibile acquisire
notizia di iscrizioni ostensibili, ma la circostanza non muta il quadro
complessivo, connotato da tendenziale segretezza, tale da rendere molto
spesso non concretamente invocabile la causa di incompatibilità. Si comprende
dunque che il legislatore avesse fatto riferimento alla qualità di imputato
senza estensioni. Ma nella stessa direzione milita non meno incisivamente
l’ulteriore rilievo che l’iscrizione potrebbe dipendere da scelte arbitrarie
dell’A.G. competente, in ipotesi non sorrette neppure da minimi indizi:
si pensi ad es. al caso di morte dovuta ad intervento chirurgico, a seguito
della quale vengano indiscriminatamente iscritti nel registro degli indagati
tutti coloro che abbiano partecipato all’operazione nelle varie vesti.
Anche nell’ipotesi di rapida archiviazione a favore della gran parte degli
iscritti, dovrebbe a rigore permanere una causa di incompatibilità alla
testimonianza, all’evidenza ingiustificata ed anzi dannosa. Sta di fatto
che la Corte Costituzionale con sentenza n. 108/92, pronunciandosi in
un caso in cui veniva dedotta la questione di illegittimità costituzionale
dell’art. 197 lett. a) cpp, ha ritenuto che l’incompatibilità si estenda
anche ai meri indagati, stante il disposto dell’art. 61 cpp, ed ha inoltre
affermato che la causa di incompatibilità permane, in caso di reati connessi,
anche dopo il provvedimento di archiviazione, ciò desumendosi dal fatto
che l’art. 197 lett. a) cpp espressamente prevede quella permanenza anche
nella fase successiva alla perdita della qualità di imputato, escludendola
nel solo caso di proscioglimento pronunciato con sentenza irrevocabile.
La Suprema Corte si è successivamente conformata a tale orientamento (Cass.
VI, 11-4-1994, Curatola) che ha espressamente ravvisato l’incompatibilità
nei confronti dell’indagato per reato connesso anche nell’ipotesi di intervenuta
archiviazione. Ma nessuna pronuncia ha mai esaminato il caso dell’incompatibilità
di cui all’art. 197 lett. b) cpp, ipotesi non considerata neppure dalla
Corte Costituzionale, occupatasi della sola lett. a).
E’ bene chiarire che, date le premesse giuridiche della citata sentenza
n. 108/92, non sembra possibile escludere l’incompatibilità, anche con
riguardo alla lettera b), nell’ipotesi di mera sottoposizione ad indagini,
ciò in virtù dell’art. 61 cpp, cui è stata riconosciuta valenza di carattere
generale anche ai fini de quibus. Restano tuttavia le perplessità di fondo
su un’indiscriminata estensione dell’incompatibilità, perplessità che
potrebbero tradursi in un vizio di illegittimità costituzionale per irragionevolezza
della disciplina, a fronte dell’indubbia incidenza che l’incompatibilità
può avere sulla ricerca della prova e della verità, nell’ipotesi in cui
essa fosse ingiustificatamente estesa oltre i limiti suoi propri e sulla
base di scelte demandate al solo P.M. In altre parole non sembra che possa
essere eluso il problema di attribuire all’incompatibilità di cui all’art.
197 cpp un significato restrittivo, per lo meno quando esso sia consentito
dal sistema e dal tenore letterale delle norme.
Ed allora deve osservarsi che, con riferimento all’ipotesi del collegamento
probatorio, l’art. 197 lett. b) cpp non riproduce esattamente il disposto
della lett. a), in quanto fa riferimento solo all’imputato, omettendo
di considerare altresì l’ipotesi del proscioglimento o della condanna
definitivi. Ciò significa che la norma non offre quell’appiglio, invocato
anche dalla Corte Costituzionale, per giungere ad affermare che non è
necessaria l’attualità della qualità di imputato (o di indagato). Al contrario,
la circostanza che una siffatta clausola non sia stata riprodotta induce
ad ritenere che il legislatore, almeno in questo caso, abbia inteso escludere
l’incompatibilità, ogni qual volta la qualità di imputato sia stata perduta,
il che avviene nelle ipotesi di cui all’art. 60 cpv cpp (sentenza definitiva
di proscioglimento o di condanna, sentenza non impugnabile di non luogo
a procedere, decreto penale di condanna esecutivo). Si è però da taluno
sostenuto che la mancata riproduzione nella lett. b) di quanto disposto
nella lett. a) sia dovuto a mera imprecisione della norma. Ciò deve in
realtà escludersi. A tal fine deve considerarsi che in caso di incompatibilità
il dichiarante potrebbe essere escusso solo con le forme di cui all’art.
210 cpp.
Ebbene, l’art. 210 cpp, nel primo comma, prescindendo ora dalle interpolazioni
introdotte dalla sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale, fa riferimento
all’ipotesi di persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art.
12 cpp, "nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente":
non v’è dubbio che la formulazione sia coerente con l’art. 197 lett. a)
cpp, che prende in considerazione anche il caso di persone ormai giudicate,
nei confronti delle quali dunque "si è proceduto". Per contro l’art. 210
cpp all’ultimo comma estende la medesima disciplina "sic et simpliciter"
alle persone imputate di reato collegato: l’assenza di ulteriori specificazioni
è parimenti conforme al disposto dell’art. 197 lett. b), giacché, escludendosi
qualsiasi riferimento a coloro nei confronti dei quali si è già proceduto,
si finisce per sottolineare che deve trattarsi di persone che "in atto"
rivestano la qualità di imputati (o di indagati).
Ed allora la conclusione da trarre è che nel caso di cui alla lett. b)
dell’art. 197 l’incompatibilità non sussiste, allorché la qualità di imputato
o di indagato sia venuta meno. Avalla tale conclusione il fatto che mai
un procedimento nei loro confronti potrebbe riaprirsi, stante l’intervenuta
definitività della condanna. Né rileva, come contrariamente asserito da
talune difese, che è sempre possibile, in caso di definitività della sentenza,
un processo per revisione atteso che la ratio della norma è quello di
tutelare il dichiarante da dichiarazioni pregiudizievoli per se stesso
per cui un eventuale processo per revisione può essere solo più favorevole
al richiedente e mai ad esso pregiudizievole).
Quanto detto esclude che si possa accedere alla tesi, pur prospettata
dalla difesa di Claudio Vitalone della non utilizzabilità delle dichiarazioni
rese da Fabiola Moretti sia come teste che come imputata di procedimento
collegato probatoriamente (ma identiche considerazioni possono farsi anche
per il teste Buscetta). Utilizzabilità delle deposizioni degli imputati
in procedimento connesso o collegato probatoriamente che si sono avvalsi
della facoltà di non rispondere i quali, richiamati ai sensi dell'art.
6 L. 97/267, si sono avvalsi nuovamente della facoltà di non rispondere.
Le loro dichiarazioni sono state di conseguenza acquisite legittimamente
al dibattimento perché di esse è stata data lettura ai sensi dell’art.
513 cpp. Il riferimento è agli imputati in procedimento connesso Carlo
Adriano Testi, Donato Lo Prete e Walter Bonino. Al riguardo si osserva
che nel corso del dibattimento è intervenuta, ai sensi della L.97/267,
la modifica dell’art. 513 cpp relativo alle letture delle dichiarazioni
rese da imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente;
norma a sua volta dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale che
ne ha, con sentenza interpretativa, modificato il senso ed il contenuto
(di ciò peraltro non è il caso di occuparsi essendo irrilevante per il
caso di specie non avendo la corte costituzionale dichiarato la illegittimità
dell’art. 6 della citata L 97/267 quando la fattispecie ivi disciplinata
si fosse già completata con il richiamo del imputato in procedimento connesso
o collegato probatoriamente.
Orbene, nel caso di specie, la disciplina transitoria, in questo processo
era già stata completata per cui nella valutazione della prova va applicata
la disciplina indicata nello stesso articolo 6 L. 97/267 che stabilisce
che le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova
dei fatti in essi affermati, solo se la loro attendibilità sia confermata
da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al PM o
alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle
indagini preliminari o nella udienza preliminare di cui sia stata data
lettura ai sensi dell’art. 513 cpp nel testo vigente prima della entrata
in vigore della L. 97/267. La disciplina applicabile al caso concreto,
quindi, esclude che tali dichiarazioni possano essere utilizzate se confermate
solo da dichiarazioni rese da altri imputati in processo connesso o collegato
che si siano avvalsi della facoltà di non rispondere e le loro dichiarazioni
siano state acquisite al fascicolo del dibattimento. Così inteso il senso
e la ratio della norma essa appare più favorevole agli imputati nel caso
in cui le stesse persone, richiamate in ossequio alla disciplina dettata
dalla Corte Costituzionale con il suo intervento interpretativo, perché
in questo ultimo caso se la persona richiamata si avvale nuovamente della
facoltà di non rispondere le sue dichiarazioni contestate possono essere
confermate da dichiarazioni di altre persone che a loro volta richiamate
si sono avvalse della facoltà di non rispondere senza la limitazione stabilita
all’art. 6 L. 97/267. Il criterio di valutazione delle notizie circolanti
nell’ambito della stessa organizzazione criminale. Al riguardo si osserva
(cass. Sez. 1 n. 11969 del94/10/11, Capriati) che il divieto di testimonianza,
con la sua conseguente inutilizzabilità delle voci correnti tra il pubblico,
indicata nell’art. 194 cpp comma terzo non è applicabile alle notizie
circoscritte ad una cerchia ben determinata ed individuabile di persone
come gli appartenenti ad una associazione a delinquere; ciò vale in particolare
per gli appartenenti alla banda della Magliana i quali, come si evince
dalla sentenza emessa dalla Corte di assise di Roma nei confronti dei
suoi membri (sentenza che sulla esistenza della associazione a delinquere
è oramai definitiva vertendo il rinvio operato dalla Corte di Cassazione
solo sulla qualifica del sodalizio criminoso come associazione di stampo
mafioso e non sulla esistenza della associazione a delinquere).
Utilizzabilità
degli atti per la decisione. Sul punto si osserva che con la entrata
in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel nostro ordinamento
è stato introdotto una nuova sanzione che può colpire l’atto giudiziario:
la sua inutilizzabilità. Ciò significa che l'atto non affetto da nullità
o da annullabilità, non affetto da alcuna irregolarità è pur tuttavia
entrato non legittimamente a fare parte del fascicolo del dibattimento.
Si tratta di sanzione meno grave della nullità perché non ha alcun effetto
sulla validità dell’atto compiuto e non ha conseguenze sul regolare svolgimento
del dibattimento influendo essa solo sulla decisione in quanto degli atti
inutilizzabili non può tenersi alcun conto ai fini della decisione.
Recita in tal senso l’art. 526 cpp che impone al giudice di deliberare
solo sulla base di prove legittimamente acquisite al dibattimento ai sensi
dell’art 191 cpp. anche se la violazione della norma nella acquisizione
della prova non sia sanzionata in alcun modo. D’altro canto tale sanzione
può avere effetti rilevantissimi nel processo perché la inutilizzabilità
della prova (che può essere parziale o totale) può essere rilevata in
ogni stato e grado del giudizio anche di ufficio (art. 191 comma 2 cpp).
Consegue da ciò che una valutazione della prova assunta nel corso del
dibattimento ai fini della dichiarazione di inutilizzabilità, totale o
parziale, può essere fatta dalla corte in camera di consiglio e fondare
la sua decisione non su tutte le prove assunte, ma solo su quelle ritenute
legittimamente acquisite indipendentemente dalla dichiarazione di utilizzabilità
fatta al termine del dibattimento. In tal senso ritiene la corte che non
può tenersi conto, perché viziate da inutilizzabilità, del contenuto delle
testimonianze di alcuni ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che
hanno riferito del contenuto di circostanze apprese da persone che in
quel momento rivestivano la qualità di imputato ovvero del contenuto dei
colloqui investigativi stante il divieto legislativo in tal senso o ancora
delle informative contenute negli atti pervenuti da organi dei servizi
segreti che non hanno avuto una specifica conferma salvo il loro valore
come prova della loro materiale esistenza o ancora dei rapporti giudiziari
e delle testimoniante rese in istruttoria (secondo la disciplina del vecchio
codice di procedura penale) che non possono transitare in questo dibattimento
se non nelle forme previste dal nuovo codice di procedura penale. Di altri
atti sarà poi fatta specifica menzione di inutilizzabilità nel corso della
esposizione. Il valore probatorio delle intercettazioni telefoniche e
ambientali. Nel corso delle indagini preliminari sono state disposte numerose
intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico di una pluralità di
soggetti. Orbene, se non vi sono dubbi che tali intercettazioni costituiscono
mezzo per la ricerca della prova, è altrettanto indubbio che il contenuto
delle intercettazioni, trascritto nelle forme di legge, costituisce materiale
probatorio che, mettendo in relazione in modo immediato e diretto la persona
che parla con le affermazioni da lei fatte, può essere messo a fondamento
della decisione del giudice in uno con gli altri elementi probatori raccolti
nel corso del giudizio. Il contenuto delle conversazioni intercettate
costituisce, quindi, a giudizio della Corte di Assise, prova autonoma
dei fatti ivi registrati.
Tali elementi, poi, trattandosi nel caso di specie, anche di conversazioni
intercettate a persone imputate di reato connesso assumono anche il connotato
di riscontro esterno alle dichiarazioni rese alla autorità giudiziaria.
Perché ciò accada è necessario, però, che: non vi siano elementi che conducano
ad un giudizio di inattendibilità del contenuto delle conversazioni intercettate
dovendosi escludere valore autonomo di prova o di riscontro se emerge
che la persona intercettata era a conoscenza della intercettazione in
atto nei suoi confronti; è evidente che in tal caso verrebbe meno la genuinità
delle affermazioni fatte e la loro valenza probatoria sarà nulla o quantomeno
grandemente scemata se non vi fossero altri elementi estranei alle conversazioni
intercettate e alle dichiarazioni rese dall’imputato di procedimento connesso
o probatoriamente collegato. È necessario che venga data una interpretazione
del linguaggio usato nelle conversazioni intercettate non potendosi basare
esclusivamente sul tenore letterario delle frasi registrate e prescindere
dal contesto dell’intero discorso. Proprio in aderenza a questo principio
ritiene la corte che alle conversazioni intercettate sia applicabile il
criterio della scindibilità della valutazione della prova, applicato massimamente
per la prova testimoniale, per cui può ritenersi provata solo una delle
circostanze emergenti dalla conversazione intercettata e nel contempo
disattenderne altre. Questi sono i criteri che la corte seguirà nell’esame
del caso sottoposto al suo vaglio.
CAPITOLO
05) LA DINAMICA DELL’OMICIDIO
La sera del
20.3.1979 nella sua auto, parcheggiata in via Orazio alcuni colpi di pistola
tolgono la vita al giornalista Carmine Pecorelli. Gli elementi probatori
acquisiti al dibattimento per la ricostruzione dell’evento sono: la sera
del 20.03.1979 intorno alle ore 20.30/20.35 Carmine Pecorelli, Franca
Mangiavacca e Paolo Patrizi lasciavano la redazione di OP sita in via
Tacito 50. Paolo Patrizi e Carmine Pecorelli accompagnavano Franca Mangiavacca
al posto ove era parcheggiata l’auto di questa ultima. In particolare
i tre si erano diretti verso la macchina della Mangiavacca, parcheggiata
sulla sinistra uscendo dalla redazione di OP all’angolo tra via Tacito
e via Ennio Quirino, ove si erano salutati; Di lì Paolo Patrizi si recava
in via Cicerone per prendere l’autobus, ma poiché non aveva moneta tornava
indietro e si recava nel bar sito nelle adiacenze della redazione di OP
per rifornirsi di moneta spicciola, mentre Carmine Pecorelli, attraversava
via Tacito per andare alla sua macchina che era posteggiata in via Orazio,
strada parallela a via Tacito. Franca Mangiavacca, dopo essere salita
in macchina, in retromarcia si era immessa in via Tacito, l’aveva percorsa
obbligatoriamente per svoltare poi a sinistra in via Plinio, e quando
aveva attraversato l'incrocio di via Plinio con via Orazio, ove era parcheggiata
la macchina di Pecorelli aveva visto vicino allo sportello anteriore,
quello della guida, una figura con un impermeabile chiaro (circostanza
riferita solo nel 1984) e la macchina con le ruote posteriori sul marciapiede.
Avendo però superato l’incrocio, aveva frenato e a retromarcia era tornata
sull'incrocio, ma non aveva più visto la persona con l’impermeabile bianco
ma aveva visto, in quel momento all’incrocio opposto a quello ove si trovava
una figura vestita di scuro(circostanza riferita, anche questa tardivamente).
Franca Mangiavacca si era diretta verso la macchina di Carmine Pecorelli;
era scesa dalla macchina e lo aveva visto sanguinante, ma non ricordava
esattamente la posizione del corpo. L’aveva chiamato una prima volta e
Carmine Pecorelli aveva risposto rantolando, la seconda volta non aveva
più risposto.
Franca Mangiavacca era ripartita cercando la persona con l’impermeabile
bianco, ma non l’aveva rivista. Era ritornata all’altro quadrivio (quello
ove aveva parcheggiato la sua macchina e aveva visto di nuovo Paolo Patrizi
che stava uscendo dal bar ove si era recato a cambiare moneta, e con lui,
che era salito in macchina, era ritornata sul posto. Qui aveva toccato
il corpo di Pecorelli (la circostanza è riferita anche da Paolo Patrizi
il quale ha affermato che al tocco di Franca Mangiavacca il corpo di Carmine
Pecorelli si era mosso. In quel frangente, anche se Franca Mangiavacca
e Paolo Patrizi non sapevano indicare il tempo trascorso, era passato
di lì l’allievo carabiniere Ciro Formuso, diretto alla caserma esistente
nei pressi, al quale Franca Mangiavacca aveva chiesto aiuto e con il quale
si era recato nel bar esistente all’angolo di via Orazio (diverso da quello
ove Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi si erano incontrati prima di ritornare
sul luogo del delitto). Ciro Formuso avvisava la centrale dei carabinieri.
Nel ritornare sul luogo del delitto Franca Mangiavacca, sebbene avvisata
da Ciro Formuso di non toccare nulla, aveva raccolto due bossoli e subito
dopo li aveva rimessi sul terreno. Anche Ciro Formuso aveva toccato il
cadavere che si era mosso. Nessuno dei tre presenti e cioè Franca Mangiavacca,
Paolo Patrizi e Ciro Formuso aveva aperto (a loro dire) la portiera destra
dell’auto ed il cassetto portaoggetti.
Nel giro di pochi minuti erano arrivati sul luogo del delitto il colonnello
Cornacchia, il capitano Tomaselli, il tenente Mascia e il tenente Alfieri.
Nessuno sparo era stato udito da Franca Mangiavacca. Veniva avvisato il
sostituto procuratore di turno e il medico legale e successivamente, poiché
il colonnello Cornacchia riteneva che potesse trattarsi di un delitto
delle Brigate Rosse, veniva rintracciato anche il PM Domenico Sica, che
all’epoca si occupava di terrorismo di sinistra, il quale si trovava a
cena a casa di Maria Di Bernardo insieme a Claudio Vitalone, al Procuratore
capo di Roma Giovanni De Matteo, al colonnello Antonio Varisco e a Walter
Bonino. Mentre il capitano Tomaselli si recava nella caserma dei carabinieri,
ove erano stati portati Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi, i PM intervenuti
e gli ufficiali di polizia giudiziaria si recavano nella redazione della
rivista OP, anche dopo avere aperto una cassaforte ivi esistente, ove
veniva sequestrata la documentazione esistente. La perquisizione veniva
estesa anche alla abitazione di Carmine Pecorelli.
Venivano eseguiti i rilievi del caso che portavano per quello che qui
interessa ai seguenti accertamenti:
Lungo via Orazio, sulla destra per chi la percorre secondo il suo senso
unico di marcia, all'altezza del civico 10/F, in corrispondenza di un
fabbricato completamente occupato dall'Ufficio del registro - le cui stanze
a piano terra sono protette da una inferriata - era stata rinvenuta l'auto
tg. ROMA R 08195, posta trasversalmente alla sede stradale e sul marciapiede,
che con la parte posteriore toccava la saracinesca di protezione del civico
10/F, e che presentava tracce di urto contro detta saracinesca. Sul marciapiede,
prima della fiancata sinistra dell'auto erano stati trovati quattro bossoli
di pistola cal 7,65; di essi due erano di marca G.L.F. E due GEVELOT.
L'auto, di colore verde, si presentava con i fari anteriori e posteriori
accesi e con la luce direzionale intermittente di destra in funzione.
Le sue ruote anteriori poggianti sulla strada accanto al marciapiede,
erano rivolte verso la destra. I due sportelli anteriori erano aperti
ed i vetri alzati. Il cristallo dello sportello anteriore sinistro si
presentava squamato e con una rottura a forma irregolare con margini frastagliati
nella porzione mediana e con andamento trasversale rispetto allo sportello.
La rottura presentava, nei limiti più estremi, una lunghezza di cm 52
e una altezza di cm 15 e sul bordo superiore un contorno a semicerchio
del diametro di cm 1 contornato da una raggiera fitta con le venature
del cristallo protese verso l'alto. Sul marciapiede antistante lo sportello
dell'auto erano sparsi frammenti di vetro appartenenti al cristallo frantumato.
Nella parte posteriore, in corrispondenza del fanale posteriore sinistro,
e sul paraurti sinistro vi era una lieve ammaccatura prodotta dall'urto
della vettura contro la saracinesca.
All'interno dell'auto giaceva il corpo di Carmine Pecorelli che poggiava
con il torace sul sedile anteriore destro e con le gambe stese e unite
tra il sedile ed il pianale sinistro. Il corpo era disteso nella quasi
totalità e leggermente obliquo rispetto all'asse trasversale della autovettura
mentre i piedi erano bloccati contro la parete anteriore sinistra del
vano guida alla quale rivolgevano la pianta. Il corpo poggiava con la
fronte sulla cornice interna e sulla guarnizione in gomma del sotto porta
dello sportello anteriore destro in parte sporco di sangue. L'arto superiore
destro era piegato sotto il torace mentre il sinistro era addotto al corpo
e leggermente piegato. Sotto il torace, sul sedile anteriore destro, vi
erano alcuni quotidiani "Paese Sera" in parte sporchi di sangue. Sul marciapiede,
appena sotto l'autovettura, in corrispondenza della testa del cadavere,
vi era la dentiera accanto alla quale vi erano piccole macchie di sangue
e frammenti di denti. Il cadavere aveva ancora occhiali da vista. Veniva
disposta perizia necroscopica/balistica, confermata a dibattimento, che
portava ai seguenti risultati.
L'esame esterno dei vestiti aveva posto in evidenza:
- una soluzione di continuo nella parte posteriore della giacca a cm 10
dal margine inferiore, immediatamente a destra della cucitura mediana
del diametro di circa mm 5;
- altra soluzione di continuo immediatamente alla sinistra della cucitura
mediana del diametro di circa mm 8 e a quota dal margine inferiore di
cm 34;
- altra soluzione di continuo in corrispondenza della cucitura laterale
sinistra a quota cm 41 dal margine inferiore;
- nella parte posteriore dei calzoni a cm 3 circa a destra della cucitura
mediana posteriore una soluzione di continuo del diametro di circa mm
6; nella parte anteriore sinistra nel terzo inferiore una macchia rotondeggiante
di materiale ematico e inferiormente a tale macchia è adeso un frammento
di circa mm 6, di forma triangolare, riferibile a frammento osseo.
- In corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro veniva notata una
soluzione di continuo di forma allungata con asse maggiore di cm 1,5 e
l'altro di cm 0,8 contornato da orletto ecmotico escoriato con margine
regolare prodotto da colpo da arma da fuoco in entrata. Il viso presentava
anche zone di soluzione di continuo. Nella regione sacrale veniva notato
un foro di entrata prodotto da colpo di arma da fuoco e altro foro di
entrata veniva osservato nella regione scapolare. Infine un quarto foro
di entrata di colpo sparato da arma da fuoco veniva repertato nella regione
toracica laterale sinistra. L'esame radiologico aveva posto in evidenza:
- presenza nel cavo orale di corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile
di arma da fuoco; presenza nel torace di tre corpi estranei radiopachi
riferibili due a proiettili di arma da fuoco ed il terzo a piccolo frammento
di proiettile di arma da fuoco. Uno dei due proiettili si rilevava a livello
del margine superiore della scapola sinistra in posizione anteriore; l'altro
alla altezza della quinta costola di sinistra in posizione anteriore a
livello della parasternale di sinistra; il frammento a densità metallica
si rileva sul margine superiore della seconda costola di sinistra a cm
3 circa al di sotto del corpo estraneo radiopaco descritto per primo e
sulla sua verticale.
- fratture della terza, quarta e quinta costola di sinistra.
- intaccatura del margine superiore della scapola di sinistra.
- presenza nell'addome di un corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile
di arma da fuoco a livello della apofisi spinosa della quinta vertebra
lombare in posizione lievemente spostata verso sinistra. L'esame esterno
del cadavere aveva posto in evidenza, per quello che qui interessa:
- in corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro, a cm 1 dal margine
superiore dello stesso e a cm 1,5 dalla commissura labiale una soluzione
di continuo di forma ellittica con asse maggiore di mm 15, quasi parallelo
all'asse longitudinale del corpo, e asse minore di mm 8 circondato da
un orletto ecchimotico; in corrispondenza della soluzione si diparte un
tramite che si approfonda in cavità….
- nella regione zigomatica sinistra piccole soluzioni di continuo nelle
quali sono infissi piccoli cristalli a consistenza vetrosa e trasparente.
- analoghe soluzioni di continuo con presenza dei piccoli cristalli vi
sono nella regione mentoniera sinistra. - frattura delle ossa proprie
del naso con lesione lacero contusa a carico del terzo superiore del naso
prevalentemente a sinistra.
- nella faccia posteriore dell'emitorace sinistro, a cm 9 dalla plica
ascellare, a cm 17,5 dalla spina vertebrale e a cm 130 dal piano calcaneare
sinistro, soluzione di continuo di forma lievemente ovale con asse maggiore
di mm 9 contornato da orletto ecchimotico-escoriato a cui faceva seguito
un tramite che si approfondiva in cavità.
- sempre nella stessa zona altra soluzione di continuità con analoga struttura,
sita a cm 10 inferiormente all'angolo scapolare, a cm 11 dalla apofisi
spinosa della 12ø vertebra dorsale e a cm 121 dal piano calcaneare.
- in regione sacrale destra, immediatamente a destra della linea mediana,
a cm 95 dal piano calcaneare altra soluzione di continuo con le stesse
caratteristiche prima descritte. L'esame autoptico aveva posto in evidenza
per quello che qui interessa:
- sul margine infero-laterale sinistro della lingua, immediatamente a
lato della punta, una soluzione di continuo cui fa seguito un tramite
al cui fondo viene repertato un proiettile da arma da fuoco a cm 159 dal
piano calcaneare.
- frattura della 3ø, 4ø e 5ø costola sinistra sulla emiclaveare, intaccatura
del margine superiore della scapola di sinistra;
- emotorace sinistro con soluzione del pericardio. - due soluzioni di
continuità… nella parete anteriore del cuore che rappresentano una il
foro di entrata e uno il foro di uscita di un proiettile di arma da fuoco
con andamento dal basso verso l'alto, da sinistra a destra e lievemente
postero-anteriore.
- polmone sinistro collassato con due soluzioni di continuo in contiguità
tra loro di cui quella inferiore è verosimilmente riferibile al foro di
entrata e quella superiore al foro di uscita di un proiettile da arma
da fuoco; polmone destro espanso per enfisema vicariante. - nello spessore
delle parti molli dell'emitorace di sinistra , parte alta, vengono repertati
due proiettili da arma da fuoco; uno a livello del piano di proiezione
anteriore del margine superiore della scapola di sinistra a cm 143 dal
piano calcaneare e l'altro a livello della 5ø costola di sinistra, sulla
parasternale sinistra a cm 137 dal piano calcaneare.
- a sinistra della apofisi spinosa della 5ø vertebra lombare viene repertato
un proiettile da arma da fuoco. Sulla base dei dati su indicati i periti
ritenevano che la causa della morte di Pecorelli, avvenuta intorno alle
ore 20 del 19/3/1979, era da attribuire alla lacerazione di organi interni
- cuore e polmoni - con conseguente emorragia interna e anemia generalizzata
prodotte da proiettili di arma da fuoco che avevano attinto Pecorelli
in varie parti del corpo e che erano stati repertati al fondo del loro
tragitto all'esito dell'esame necroscopico.
Gli elementi
utili per la individuazione del mezzo che aveva causato la morte del Pecorelli
era costituita da:
- quattro bossoli con capsula percossa, ritrovati sul luogo dell'omicidio.
- 4 proiettili estratti dal corpo di Pecorelli durante la perizia necroscopica.
L'esame dei bossoli aveva evidenziato: - i bossoli repertati sul luogo
dell'omicidio erano risultati essere due recanti sul fondo il marchio
"+GEVELOT+ 7,65" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32 Auto
fabbricate dalla ditta francese Gevelot S.A., 50 Rue Ampere e due recanti
il marchio "G.F.L. 7,65 mm" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32
Auto fabbricate dalla ditta Giulio Fiocchi di Lecco Italia. - i quattro
proiettili potevano essere esplosi da una pistola semiautomatica o automatica
avente cameratura specifica per il calibro 7,65 Browning/32 Auto. - i
bossoli marca "GEVELOT" avevano caratteristiche anche metallurgiche di
identità perfetta. - i due bossoli marca Fiocchi sono simili a quelli
Gevelot ma si differenziano per la struttura micrometallografica, ma sono
identici tra di loro presentando un piccolo difetto di impronta di punzonatura
delle lettere G e L. I bossoli marca "+GEVELOT+7,65" facevano parte di
un lotto fabbricato in epoca successiva al 1976 e facevano parte di bossoli
assemblati in cartucce con proiettile di tipo mantellato. Essi non erano
molto comuni. - i bossoli marca "G.F.L. erano parte di un lotto fabbricato
dopo il 1976 e facevano parte di lotti di fabbricazione per l'interno.
- tutti i bossoli erano stati espulsi dalla stessa pistola per le caratteristiche
comuni riscontrate su di essi. L'esame dei proiettili aveva evidenziato:
- il proiettile estratto dalla lingua di Pecorelli era della marca "G.F.L."
e la sua comparazione con materiale di sicura origine indicava per la
sua struttura merceologica e quantitativa che era stato esploso da una
cartuccia calibro 7,65 Browning/.32 Auto. Si presentava deformato con
inglobati dei microcristalli di consistenza vetrosa con indice di rifrazione
identico a quello dei cristalli di auto Citroen. La deformazione era attribuibile
all'impatto primario contro il cristallo della portiera anteriore sinistra
dell'auto di Pecorelli. - Anche il proiettile estratto dal torace ( quello
più in basso ) era un proiettile marca "G.F.L." ed aveva le stesse caratteristiche
individuate per il primo proiettile. - in sede sacrale ed in sede pettorale
alta i due proiettili erano merceologicamente diversi e erano riconducibili
a cartucce marca "GEVELOT" di fabbricazione recente. Anche tali proiettili
avevano inglobati microcristalli del vetro Citroen.
- tutti i proiettili, per le caratteristiche riscontrate, erano stati
sparati dalla stessa arma munita di silenziatore posto oltre il vivo di
volata.
- l'arma che aveva esploso i colpi era una pistola automatica o semiautomatica
corta calibro 7,65 e non anche una pistola che per tolleranza di cameratura
può sparare proiettili dello stesso calibro; conclusione a cui si perveniva
dall'esame delle caratteristiche riscontrate sia sui bossoli che sui proiettili
a meno che non fosse provato che la canna era stata sostituita.
- sulla base dell'esame di tutti i modelli di pistola aventi caratteristiche
riscontrate sui bossoli e sui proiettili il modello della pistola che
aveva esploso i colpi erano solo sette e precisamente : l'astra 300, frommer
mod 37, M.A.B. modelle "D", Llama mod X o Franchi Llama 7.65/.32, H&K
mod. 4, Mauser mod 1914 e mod HSc, Savage mod 1907,1915,1917, Erma mod
KGP 68.
- L'uso di un silenziatore, la morfologia della superficie della testa
dell'espulsore, la cameratura perfetta e ben rettificata, la percussione
sferica, l'andamento delle fresature di rettifica, la formazione della
rigatura di tipo moderno a forgiamento riducevano il tipo di arma impiegato
per gli spari ai seguenti modelli: MAB mod "D", Astra 300 e Erma KGP 68.
Modelli che permettevano la filettatura della canna - se usata quella
originale - per l’applicazione del silenziatore.
- i primi due colpi sparati erano quelli con proiettili marca "G.F.L."
ed avevano attinto Carmine Pecorelli al labbro e alla schiena mentre i
successivi due proiettili marca "GEVELOT" avevano attinto Carmine Pecorelli
alla schiena e alla regione sacrolombare. Tutti avevano impattato il vetro
della Citroen. - l'individuazione del modello di arma usato non escludeva
che fosse stata usata altra arma assemblata con canna non di fabbrica.
- i colpi erano stati sparati da una distanza ravvicinata e comunque non
superiore a m 1/1,5 dal vetro della Citroen ( altrimenti un colpo non
avrebbe potuto attingere Pecorelli nella schiena quando era oramai riverso
sul sedile anteriore destro ). la traiettoria dei colpi dall'alto in basso
per quanto attiene a quelli che avevano colpito Pecorelli alla schiena
e alla spalla sinistra, il foro di entrata dei proiettili attraverso il
vetro indicavano che la persona che aveva sparato aveva una statura compresa
tra cm 170 e cm 180. L’esame dei periti che avevano eseguito la perizia
balistica/necroscopica aggiungevano altri particolari e cioè che: la morte
di Carmine Pecorelli non era stata istantanea, ma dal momento degli spari
a quello del decesso erano trascorsi circa 10 minuti. La pistola che aveva
sparato oltre a quelle indicate prima poteva essere anche la Beretta mod.
81 che, a seguito degli ulteriori accertamenti svolti dal perito nel corso
degli anni, aveva mostrato di avere la possibilità di un inserimento del
silenziatore sul vivo di volata (del resto Valerio Fioravanti al momento
del suo arresto era in possesso proprio di una Beretta su cui era possibile
applicare un silenziatore artigianale).
Sulla base di tali elementi rileva la Corte che non è possibile allo stato,
né ulteriori indagini potrebbero supplire alla carenza probatoria, stabilire
esattamente la dinamica dei fatti perché la posizione del corpo, come
constatata al momento dell’arrivo dei tecnici per la rilevazione dei dati
obbiettivi, non era sicuramente quella risultante al momento dell’evento
per essere stati spostati da Franca Mangiavacca i bossoli dei proiettili,
per essere stato spostato il corpo della vittima, per essere state aperte
le portiere e il cassetto del vano porta oggetti. E’ tuttavia possibile
affermare con certezza, e queste sono le considerazioni più importanti,
che la sera del 20.3.1979 aveva sparato una sola pistola calibro 7,65
munita di silenziatore che era stata caricata con proiettili misti marca
Gevelot e marca Fiocchi.
La sequenza degli spari, tutti effettuati attraverso il cristallo della
portiera anteriore sinistra, come rettamente posto in luce dai periti
Ugolini e Calabresi per la presenza di microcristalli di vetro sui proiettili
estratti dal corpo di Pecorelli, indicava che il corpo è stato attinto
per primo al volto con un proiettili Fiocchi, successivamente al torace
da un altro proiettile Fiocchi e da un proiettile Gevelot e alla schiena
dal secondo proiettile Gevelot. Il tramite dei fori indica anche che mentre
il primo proiettile è stato esploso quando Pecorelli era in posizione
eretta, gli altri sono stati esplosi quando Pecorelli era quanto meno
girato verso il lato destro se non addirittura piegato. Ciò non contrasta
con quanto riferito dai testi Franca Mangiavacca, Paolo Patrizi e Ciro
Formuso perché, come hanno posto in evidenza i periti, la morte non è
stata istantanea e Carmine Pecorelli può essersi rialzato dopo essere
stato colpito. La circostanza che i colpi sono stati sparati da una sola
pistola dà anche conferma alla affermazione di Mangiavacca di avere visto
una sola persona vicina alla vettura quando era transitata la prima volta
all’incrocio di via Orazio.
La impossibilità
di ricostruire esattamente la dinamica dell’omicidio non esclude che venga
sgombrato il campo da alcune considerazioni che hanno fatto aleggiare
ipotesi misteriose sul processo. Il riferimento è alla presenza di una
auto alfa Romeo nei pressi della redazione di OP, ai movimenti di Franca
Mangiavacca e Paolo Patrizi dal momento della scoperta del cadavere all’arrivo
dei carabinieri, alla presenza dello stesso Ciro Formuso sul luogo del
delitto, alle modalità di ingresso nella sede di OP, alla presenza di
persone misteriose nella stessa sede diverse dagli ufficiali di polizia
giudiziaria e dai pubblici ministeri, alle modalità di apertura della
cassaforte esistente nella sede di OP, ad un ruolo di Claudio Vitalone
la sera del delitto. Ritiene la corte che si tratta di mere ipotesi che
non hanno trovato conferma sul piano processuale o che sono state smentite
dalle risultanze emerse a dibattimento. Un elemento comune per le varie
ipotesi prospettate è dato dal lasso di tempo trascorso dal fatto che
sicuramente ha sbiadito i ricordi e dal clamore che l’omicidio ha creato
(se ne è parlato spesso sulla stampa e sui mass media in generale) per
cui può esserci stata una sovrapposizione o una trasposizione di ricordi
che può avere generato errori nei ricordi.
Ciò detto, si osserva.
Circa la presenza di una vettura alfa Romeo 1750, auto comune all’epoca,
è riferita dal capitano Antonino Tomaselli il quale ha richiamato la testimonianza
di tale Franco Santini, resa a un Maresciallo della Compagnia San Pietro,
il quale alle ore 20.30 circa si era recato in Via Orazio a parcheggiare
una motoretta, e aveva notato l’alfa Romeo 1750 con tre persone. Nulla
è emerso per poter affermare, al di là di una mera coincidenza temporale,
che gli occupanti della vettura fossero coinvolti nell’omicidio. Circa
i movimenti di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi dal momento della loro
uscita dalla redazione di OP al momento del loro trasferimento presso
la caserma dei carabinieri per essere interrogati. È ben vero che all’apparenza
vi sono delle discrasie e che la presenza di Paolo Patrizi non è stata
notata da Ciro Formuso, ma ciò, come già detto, può essere il frutto del
lungo lasso di tempo trascorso dal giorno del fatto al momento in cui
hanno reso la testimonianza avanti a questa corte. Nulla autorizza a ritenere
che in quel frangente uno dei due sia risalito nella sede di OP e che
di lì abbia sottratto documenti importanti (tale è il senso delle numerose
domande che sono state fatte ai due testimoni sul punto); anzi dalla testimonianza
del capitano Tomaselli e del tenente Mascia emerge che i due erano in
stato di agitazione dovuta alla morte di Carmine Pecorelli che aveva influito
notevolmente sulla loro tranquillità d’animo e ciò può avere influito
nella distorsione dei ricordi.
L’effettiva presenza di Ciro Formuso sul luogo dell’omicidio emerge dagli
atti del fascicolo esistente presso la questura di Roma da cui si evince
che la comunicazione della morte di Carmine Pecorelli era pervenuta al
centro operativo tramite il brigadiere DI SANTO della sala operativa dei
carabinieri il quale aveva riferito anche che la segnalazione era pervenuta
dall’allievo ufficiale Ciro Formuso alle ore 21.00 ( a ciò deve aggiungersi
la testimonianza del capitano Tomaselli il quale aveva appreso della presenza
di Ciro Formuso dai giornali i quali lo indicavano come colui che era
intervenuto sul posto chiamato da Franca Mangiavacca. Circa le modalità
di ingresso nella sede di Op e la presenza di persone nella sede che avrebbero
aperto la porta emerge dagli atti che fin dalle ore 22,30 del 20/3/1979
la polizia giudiziaria era in possesso delle chiavi della sede di Op perché
rinvenute nella disponibilità di Carmine Pecorelli al momento della sua
morte; evidente quindi, poiché le chiavi erano solo nel possesso di Franca
Mangiavacca e Carmine Pecorelli e la prima non era presente al momento
della apertura della sede, che personale della polizia ha provveduto ad
aprire la sede di OP con le chiavi rinvenute nella macchina di Carmine
Pecorelli.
Quanto detto trova conferma nella comunicazione della questura di Roma
del 1.4.1994 in cui si dà atto da un lato che nessun servizio di pattuglia
fu fatto dall’agente Michelangelo Pirelli (colui che secondo alcuni avrebbe
detto che si era recato presso la sede di Op ma ne era stato mandato via
da persone che si trovavano all’interno )la sera del 20.3.1979. Circa
un ruolo di Claudio Vitalone la sera del delitto, esso alla luce delle
risultanze processuali va escluso. Sul punto le fonti di prova, complessivamente
valutate, permettono di affermare, anche se sulla base di ricordi a volte
confusi, che la sera del 20.3.1979 a casa di Maria Di Bernardo (meglio
nota come Maria Palma dal nome del marito) vi era stata una cena a cui
avevano partecipato Domenico Sica, Walter Bonino, Claudio Vitalone, Antonio
Varisco, Giovanni De Matteo con le rispettive consorti. La circostanza
è ricordata da Walter Bonino, da Maria Di Bernardo, da Giovanni De Matteo,
da Domenico Sica e da Pia Lastaria e indirettamente è confermata, anche
se relativamente al solo Antonio Varisco, da Cristina Nosella che in quel
periodo aveva una relazione sentimentale con questo ultimo. E’ stato sostenuto
che l’occasione in cui si sarebbe verificata la cena con la presenza contemporanea
di Sica, De Matteo e Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo non
è quella della uccisione di Pecorelli, ma quella del 23.1.1979 in cui
dai predetti tre PM era stato effettuato di un sopralluogo a Ornano, dove
si sospettava che vi fosse un covo di terroristi.
La circostanza del sopralluogo è vera, ma non si identifica con la cena
tenutasi a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio di Pecorelli.
Depongono in tal senso la testimonianza di Sica, il quale ricorda esattamente
che in una sola occasione in cui era ospite di Di Bernardo ha interrotto
la cena ed è pacifico che Sica è intervenuto sul luogo del delitto a seguito
della chiamata effettuata dall’allora tenente Alfieri che si era recato
a casa di Maria Di Bernardo a prelevarlo, e di Pia Lastaria la quale,
anche se a contestazione, ha confermato quanto dichiarato nelle indagini
preliminari e cioè che a Ornano erano andati suo marito, Sica e Claudio
Vitalone e che suo marito era ritornato a casa di Maria Di Bernardo dopo
il sopralluogo mentre nel caso dell’uccisione di Pecorelli suo marito
era stato dissuaso dall’andare sul luogo dell’omicidio dai sostituti Sica
e Vitalone. In tal senso si spiega anche l’affermazione di Sica di avere
avuto delega orale a trattare il caso, delega regolarizzata successivamente
alla formazione del fascicolo di ufficio. Né la partecipazione a tale
cena di De Matteo e della moglie, basata quanto al primo sulla mancata
annotazione dell’evento sulla sua agenda e quanto alla seconda sulla mancanza
di ricordi perché è lo stesso De Matteo che ammette che non tutto ciò
che gli accadeva era segnato sull’agenda mentre la seconda ha, a contestazione,
confermato quanto dichiarato nelle indagini preliminari e cioè di essere
stata presente a quella cena.
Ma
la presenza di Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio
Pecorelli non significa nulla atteso che non vi è prova di una qualsiasi
attività da parte di quest’ultimo quella sera. Né incide sulla valutazione
del dato processuale il fatto, asserito da Maria Di Bernardo che quella
sera era pervenuta una telefonata per Claudio Vitalone con cui si annunziava
la morte di Pecorelli. Invero dalla deposizione del tenente Alfieri si
ha la prova che egli aveva parlato con Sica, da lui cercato su espressa
indicazione del suo comandante Cornacchia, prima nella sua abitazione
e poi a casa di Maria Di Bernardo. Circostanza questa confermata dalla
deposizione di Walter Bonino da cui si evince che la telefonata che comunicava
la morte di Carmine Pecorelli era arrivata a Sica mentre stavano per andare
a tavola e fu da questi detta perché doveva andare via con Varisco. E’
ben vero che potrebbero essere giunte a casa Di Bernardo due telefonate,
ma di ciò non vi è prova alcuna (la stessa Di Bernardo parla di una sola
telefonata) e l’affermazione di Maria Di Bernardo di una telefona da lei
presa dal centralinista e diretta a Vitalone, il quale subito dopo le
avrebbe detto che Pecorelli era un poco di buono, può essere anche frutto
di una sovrapposizione di ricordi (non va dimenticato che le cene di Claudio
Vitalone a casa di maria Di Bernardo non erano un evento raro) risultando
sulla base di una altra informazione data da Walter Bonino e cioè che
subito dopo che era stata comunicata la morte di Pecorelli, Maria Di Bernardo
si era appartata in una stanza e al ritorno aveva detto che Carmine Pecorelli
non era uno stinco di santo, ma non sa dire da chi avesse appreso la notizia.
Questa ultima affermazione se da un lato conferma indirettamente quanto
detto da Maria Di Bernardo, e cioè di avere appreso da Claudio Vitalone
le qualità morali di Carmine Pecorelli non conferma anche l’arrivo di
una seconda telefonata annunziante la morte di Pecorelli. Conseguentemente
l’affermazione di una repentina uscita di Vitalone insieme a Sica e Varisco,
non ricordata da nessuno dei presenti se non dalla sola Di Bernardo (Bonino
ricorda in effetti, pur non avendo motivo di dubitare di quanto affermato
da Di Bernardo, che ad andare via erano stati i soli Varisco e Sica e
non anche Vitalone), non può ricollegarsi che alla stessa occasione, diversa
da quella della sera dell’omicidio Pecorelli, in cui effettivamente era
stato richiesto l’intervento di Vitalone il quale aveva dovuto abbandonare
la cena.
continua
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