NOTIZIARIO del 19 giugno 2003

 
     

SENTENZA ANDREOTTI_PECORELLI 1

N. 1/94 RG. Notizie di reato P. M D.D.A. N 4/95 R.G. Trib. Corte Assise e N. 5/95 R.G.; N.1/96 R.G.;
N. 2/96 R.G. riuniti. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Assise di Perugia composto dai Signori: Dott.GIANCARLO ORZELLA Presidente Dott.NICOLA ROTUNNO Giudice Sig. GILBERTO GATTICCHI Giudice Pop. D.ssa ANNA RITA CATALDO " " Sig. ALBERTO ALUNNI " " Dott. MARCELLO FICOLA " " Sig.ra IVANA BEI " " Sig. STEFANO AVELLINI "
" ha pronunciato e pubblicato in data 24.9.1999 la seguente S E N T E N Z A Nei confronti di:
1) CALO’ Giuseppe, nato a Palermo il 30.9.1951, ivi residente P.zza Giuseppe Verdi, 6; attualmente detenuto p.a.c. presso Casa Reclusione di Spoleto. Rinunciante a comparire – DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Rosa CONTI del Foro di Perugia e Avv. Corrado OLIVIERO del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Walter BISCOTTI del Foro di Perugia;
2) ANDREOTTI Giulio, nato a Roma il 14.1.1919 elettt.te domiciliato c/o lo studio del difensore Avv. Franco Coppi in Roma Via Arno, 21 libero non comparso – (già presente all’ud. del 11.4.1996) DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Franco COPPI del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Giovanni BELLINI del Foro di Perugia e Avv. Odoardo ASCARI del Foro di Modena sostituito in udienza daal’Avv.Stelio ZAGANELLI del Foro di Perugia.
3) VITALONE Claudio, nato a Reggio Calabria il 7.7.1936 elett.te domiciliato c/o lo studio del difensore Avv. Carlo Taormina in Roma Via Federico Cesi, 21 libero presente – DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Carlo TAORMINA del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Maurilio PRIORESCHI del Foro di Roma e Avv. Alberto BIFFANI del Foro di Roma sostituito dall’Avv. Arturo BONSIGNORE del Foro di Perugia.
4) CARMINATI Massimo, nato a Milano il 31.5.1958, elett.te domiciliato a Formello (Roma) Via Maiano, 48 (dom.eletto alla scarcerazione) Libero non comparso – (già presente all’ud. del 9.9.96). DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Giosuè Bruno NASO e Avv. Giuseppe VALENTINO entrambi del Foro di Roma.
5) BADALAMENTI Gaetano, nato a Cinisi (PA) il 14.9.1923 in atto detenuto presso il Penitenziario di Fairton (U.S.A.), elett.te dom.to in Italia a Cinisi (PA) Corso Umberto n. 183 presso la moglie VITALE Teresa. Detenuto p.a.c. – ( dichiarato contumace all’ud. del 6.6.96) DIFENSORE DI FIDUCIA: Avv. Paolo GULLO del Foro di Palermo, sostituito in udienza dall’Avv. Silvia EGIDI del Foro di Perugia.
6) LA BARBERA Michelangelo, nato a Palermo il 10.9.1943 ivi residente Via Castellana, 346 attualmente detenuto p.a.c. presso Casa C.le di Palermo -detenuto p.a.c. rinunciante a comparire – (già presente all’ud. del 1.7.96) DIFENSORI DI FIDUCIA: Avv. Angelo BARONE del Foro di Palermo e Avv. Daniela Paccoi del Foro di Perugia.
PARTI CIVILI: Avv. Claudio FERRAZZA del Foro di Roma difensore e Procuratore Speciale di PECORELLI Rosina; Avv. Alfredo GALASSO del Foro di Roma sostituito in udienza dall’Avv. Francesco CRISI del Foro di Perugia;
difensore e Procuratore Speciale di PECORELLI Andrea RUSSO Liliana ved. PECORELLI rappresentata e difesa dall’Avv. Raffaele CAMPIONI del Foro di Roma.
PECORELLI Stefano rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco CRISI del Foro di Perugia.

I M P U T A T I Per il reato di cui agli artt. 110, 112 n.1, 575, 577 n. 3 c.p. per avere, agendo in concorso con BADALAMENTI Gaetano, CALO’ Giuseppe, ANDREOTTI Giulio, VITALONE Claudio, LA BARBERA Michelangelo e con ignoti, i primi quattro quali mandanti, il LA BARBERA e il CARMINATI quali esecutori materiali, nonché con SALVO Antonino, SALVO Ignazio, BONTATE Stefano, INZERILLO Salvatore, ABBRUCIATI Danilo, GIUSEPPUCCI Franco (questi ultimi sei tutti deceduti), cagionato con premeditazione la Morte di PECORELLI Carmine mediante quattro colpi di pistola. In Roma 20.3.1979.

CON L’INTERVENTO DEI PUBBLICI MINISTERI: Dr. Fausto CARDELLA e Dr. Alessandro CANNEVALE LE PARTI COSI’ CONCLUDONO: IL P.M: chiede affermarsi la responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti e la condanna alla pena dell’ergastolo, pene accessorie come per legge.
I DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI: l’Avv. Galasso per Pecorelli Andrea chiede che gli imputati siano condannati con concessione di una provvisionale che si ritiene equo quantificare in L. 500.000.000, con condanna alla refusione delle spese di giudizio. L’Avv. Ferraza per Pecorelli Rosina chiede la condanna di tutti gli imputat ial risarcimento in solido di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dal Sig. Andrea Pecorelli, si chiede altresì che gli imputati siano condannati al risarcimento di una provvisionale in favore della Sig.ra Pecorelli Rosina da quantificare in L. 500.000.000 con refusione delle spese di giudizio.
L’Avv. Crisi per Stefano Pecorelli chiede la condanna di tutti gli imputati al risarcimento in solido di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali e alla concessione di una provvisionale in favore di Stefano Pecorelli da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle spese di giudizio.
L’Avv. Campioni per la parte civile Russo Liliana: chiede la condanna degli imputati in solido al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti dalla Sig:ra Russo e alla concessione di una provvisionale da quantificare in L. 500.000.000 e alla refusione delle spese di giudizio.

I DIFENSORI DEGLI IMPUTATI: L’Avv. Oliviero e l’Avv. Conti per Calo’ chiedono l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Barone per La Barbera chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Coppi per Andreotti chiede l’assoluzione con formula piena. Gli Avvti Bellini, Zaganelli e Ascari per Andreotti chiedono assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Biffani per Vitalone chiede l’assoluzione con la formula più ampia. L’Avv. Egidi per Badalamenti chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Paccoi per La Barbera chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. L’Avv. Naso per Carminati chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

CAPITOLO 01) VOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si è celebrato, oggi, nella contumacia di BADALAMENTI GAETANO, il processo a carico dello stesso, nonché di ANDREOTTI GIULIO, VITALONE CLAUDIO, CALO’ GUSEPPE, LA BARBERA GAETANO e CARMINATI MASSIMO tutti chiamati a rispondere in concorso tra loro e con altri nelle more deceduti, del reato loro ascritto in rubrica. Il processo, iniziato nell’aprile 1996, ha visto, a quella, udienza la costituzione di parte civile della sorella, della moglie e dei figli di Pecorelli Carmine; esso, poi, è stato immediatamente sospeso e rinviato a giugno dello stesso anno per la dichiarazione di astensione del presidente e del giudice aggregato e per la loro sostituzione per cui il collegio si è formato nella attuale composizione.
Il PM esponeva i fatti e chiedeva la ammissione delle prove consistenti nella produzione di una imponente documentazione, nella richiesta di escussione testimoniale di numerosissime persone informate sui fatti e nell’esame degli imputati. Nessuna prova diretta era fatta dai difensori delle parti civili. Richiesta di ammissione di documenti e di prove per testi era fatta dai difensori degli imputati ad eccezione di Badalamenti Gaetano. La Corte ammetteva le prove richieste e provvedeva alla escussione dei testimoni ad eccezione di quelli per i quali vi era stata rinunzia della parte richiedente, accettata espressamente dalle altre parti e ritenute dalla Corte non necessarie per la comprensione dei fatti. Nel corso del dibattimento erano anche acquisiti documenti e ammessi testimoni de relato o il cui nome era emerso dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento. La Corte esercitava anche il suo potere ex art. 507 cpp disponendo alcune perizie e l’audizione di alcun testimoni. All’esito del dibattimento il PM, le parti civili e i difensori degli imputati concludevano come in atti.

CAPITOLO 02) PREMESSA

La molteplicità degli eventi che sono stati sottoposti all’esame della corte e che dalla stessa sono stati esaminati per la ricostruzione della vicenda, i problemi della valutazione della prova connessi alla mutevole posizione assunta nel corso del dibattimento da alcune persone che hanno reso deposizione rende necessario individuare la sequenza dei temi che devono essere trattati al fine di dare organicità alla esposizione della vicenda per una sua migliore comprensione secondo la decisione di questa corte di assise. La sentenza, per le argomentazioni difensive svolte da talune delle difese, contiene preliminarmente alcune considerazioni di carattere generale e la indicazione dei criteri normativi di interpretazione del materiale probatorio. A tali punti di carattere generale seguirà la ricostruzione del fatto, la descrizione, secondo il giudizio della corte, della personalità di Carmine Pecorelli, i suoi interessi al momento della morte, i possibili moventi e la loro riferibilità, la possibilità per Carmine Pecorelli di conoscere ulteriori notizie in ordine alle vicende individuate come possibili moventi, gli eventi rilevanti per l’omicidio, la individuazione e descrizione delle organizzazioni criminali, la partecipazione a tale organizzazione delle persone che hanno reso dichiarazioni su quel punto, la loro credibilità e attendibilità, la possibilità che fosse richiesta l’uccisione di Carmine Pecorelli, la matrice del delitto.

CAPITOLO 03) CONSIDERAZIONI GENERALI

Una prima considerazione, in relazione ad affermazioni che più volte sono riecheggiate nell’aula e segnatamente nella discussione ad opera di talune parti sia private che pubbliche è relativa all’oggetto della decisione di questa corte di assise. La corte di assise di Perugia ha il dovere, unico ed esclusivo, di dare una risposta al quesito giuridico che le è stato posto e cioè se gli attuali imputati nel loro complesso o partitamente sono responsabili della uccisione di Carmine Pecorelli. Tale risposta deve, necessariamente, prescindere dalle qualità personali, dall’inserimento o meno di taluni imputati in posizione di vertice in organizzazioni criminali di particolare pericolosità o dalla attività politica di taluni degli imputati; tali caratteristiche potranno e saranno prese in considerazione solo quando esse hanno attinenza, e nei limiti in cui l’avranno, con i temi probatori che saranno affrontati dalla corte per essere stati portati al suo esame.
E’, quindi, errato, a giudizio della corte, fare riferimento a un processo politico e vedere nell’esercizio dell’azione penale lo strumento per una persecuzione politica nei confronti di tali imputati; il riferimento non può essere che a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone che nella loro vita hanno ricoperto cariche pubbliche ai massimi livelli (il primo da oltre cinquanta anni svolge attività politica e ha ricoperto quasi ininterrottamente cariche pubbliche ai massimi vertici amministrativi e politici come presidente del consiglio dei ministri o ministro ed il secondo ha ricoperto prima la carica di sottosegretario e poi di ministro della Repubblica Italiana).
Parimenti errato è la considerazione che la decisione (evidentemente temuta sfavorevole) sarà frutto dell’inserimento degli imputati in organizzazioni criminali come "Cosa Nostra" o c.d. "Banda della Magliana" o organizzazioni eversive della estrema destra.
Conseguenza diretta della prima affermazione è stato l’insistente richiamo alla corte di assise al rispetto delle regole giuridiche nella formazione della propria decisione, per evitare che la sentenza sia uno strumento improprio utilizzato per raggiungere fini non compatibili con l’esercizio della giurisdizione ma propri della lotta politica tesa ad eliminare scomodi avversari politici come gli attuali imputati. Sul punto ritiene la corte che, in uno stato di diritto quale è quello italiano, dove il principio della separazione dei poteri e della autonomia della magistratura sono valori costituzionali, ipotizzare una simile evenienza è agghiacciante e fuori dalla realtà presupponendo, sulla base di un convincimento aprioristicamente formatosi per il solo fatto che nei confronti di taluni imputati è stata iniziata l’azione penale, una perversa mala fede nei confronti non solo dei giudici togati ma anche dei semplici cittadini che hanno avuto la ventura di essere sorteggiati come giudici popolari per questo processo.
Né vale sostenere che la critica non è diretta al collegio giudicante perché la diversa angolazione della critica non sposta il problema stante la natura pubblica della accusa e gli obblighi su di essa gravanti. L’osservazione sopra fatta in ordine al richiamo al rispetto delle regole che sovrintendono alla decisione che sarebbero violate per fini politici in una con quella della personalizzazione del confronto con i singoli magistrati che hanno impersonato l’ufficio dell’accusa, malgrado il ripetuto richiamo del presidente della corte a rivolgersi impersonalmente all’ufficio della pubblica accusa, conduce ad una terza affermazione di talune delle difese: la esistenza di un complotto nei confronti di alcuni imputati; è ben vero che il termine complotto è stato mitigato nella discussione ed è stato sostituito con quello di "eccesso di zelo ambientale", ma la sostanza non cambia, come non cambia la sostanza delle cose il fatto che Giulio Andreotti nel suo esame non ha mai parlato di complotto ai suoi danni, ma quando si chiede (retoricamente a giudizio della Corte) chi ci sia dietro a coloro che lo accusano inevitabilmente l’affermazione della esistenza di un complotto torna implicitamente e prepotentemente alla ribalta.
Sul punto la Corte ritiene che una tale affermazione sia infondata. Invero ad escludere una simile ipotesi è sufficienti considerare: le dichiarazioni relative a fatti importanti per questo processo sono state rese da numerose persone, appartenenti a ceti sociali tra loro diversissimi, che non si conoscevano e non avevano tra loro rapporti; persone che non avevano motivo di rancore o odio nei confronti degli imputati a punto tale da volere la loro condanna all’ergastolo per un reato così grave come l’omicidio premeditato ovvero specifiche ragioni per mentire anche in considerazione che alcune di esse erano e sono ancora amici degli imputati; persone che hanno raccontato cose da loro vissute o apprese in tempi non sospetti per cui è da escludere un complotto ordito da tali persone. Esso poi avrebbe avuto necessità di una pluralità di persone, tutte d’accordo nel tramare contro gli imputati, per impedire che la trama fosse scoperta.
L’ipotesi francamente non è credibile atteso, anche, che per una tale evenienza sarebbe stato necessario che l’opera di cospirazione delle persone informate sui fatti avesse come avallanti una pluralità di organi investigativi (nell’ambito di ciascuno di essi tutte le persone che si sono occupate a vario titolo dell’inchiesta nella fase delle indagini preliminare) e una pluralità di pubblici ministeri che facendo parte di più procure si sono occupate dell’inchiesta o di filoni di essa (in specie la procura di Roma naturale giudice competente dell’inchiesta dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, quella di Perugia dopo il coinvolgimento nell’inchiesta di Claudio Vitalone sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Roma al momento dell’omicidio di Carmine Pecorelli e la procura della repubblica presso il tribunale di Palermo competente per il reato di concorso in associazione mafiosa a carico di Giulio Andreotti del cui processo molti atti sono confluiti in questo pendente avanti alla Corte di Assise di Perugia.
Né può pensarsi che il complotto sia organizzato e gestito dalle persone che hanno avuto la conduzione delle indagini perché, anche in questo caso, sarebbe stato necessario il consenso e la connivenza delle persone informate sui fatti che a vario titolo hanno reso deposizioni in questo processo. Se effettivamente fosse esistito un complotto in danno di taluni degli imputati esso sarebbe stato ordito sicuramente meglio e non si sarebbero verificate quelle vistose smagliature che sono proprio il segno della mancanza di un previo accordo; non appare credibile che un "cospiratore", appena attento alle dinamiche del processo, organizzerebbe un complotto architettando una serie di circostanze che hanno prestato il fianco a tutte una serie di critiche, censure, e contraddizioni come quelle che fanno dire a Fabiola Moretti di avere visto Massimo Carminati ferito all'occhio o meglio che Danilo Abbruciati ha visto Massimo Carminati ferito all'occhio, ovvero che fa dire a Vittorio Carnovale che Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis erano sul luogo dell'omicidio (la credibilità di Vittorio Carnovale nella ipotesi del complotto è fattore essenziale perché è il primo che introduce Vitalone Claudio nel processo affidandogli un ruolo di mandante intermedio per cui l’organizzatore del complotto, se voleva che esso andasse a buon fine, doveva indottrinarlo ben bene facendogli dire circostanze che dovevano reggere ad una successiva e rigorosa verifica di riscontro e non cadere miseramente al primo controllo) o ancora che non si accerti della esistenza e della agibilità del ristorante La lampara, ove sarebbero avvenuti gli incontri tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone, prima di fare dichiarare tali circostanze a Fabiola Moretti.
La indicazione nel verbale di assunzione di Antonio Mancini del 27.1.1994 e in quello di Fabiola Moretti del 5.5.1994 ore 22.00 della lettura delle dichiarazioni rese da Vittorio Carnovale (relativamente al verbale sottoscritto da Antonio Mancini)e di Antonio Mancini (relativamente al verbale sottoscritto da Fabiola Moretti).
Se effettivamente vi fosse stato un complotto a cui avrebbero partecipato, necessariamente, i coimputati in procedimento collegato probatoriamente che sono la fonte primaria delle accuse, non vi sarebbe stata migliore occasione che leggere e fare conoscere a Antonio Mancini le dichiarazioni di Vittorio Carnovale e a Fabiola Moretti quelle rese da Antonio Mancini senza darne atto a verbale creando così le premesse di una solida prova basata sul riscontro incrociato delle dichiarazioni e sulla loro autonomia.
La critica all’operato del PM non è condivisa da questa Corte neppure sotto il profilo (concetto espresso dalla difesa di Claudio Vitalone) "dell’eccesso di zelo ambientale" e della mancanza di indagini in altre direzioni. E’ ben vero che l’indagine ha avuto ad oggetto principalmente la persona di Claudio Vitalone e che tale indagine è stata particolarmente penetrante, ma ciò, a parere della corte, è una conseguenza della centralità del suo ruolo nella vicenda. Ruolo di mandante intermedio e di cerniera tra i due gruppi criminali che, secondo l’impianto accusatorio, avrebbero organizzato ed eseguito il delitto. Di qui la necessità di ogni possibile verifica, a fronte dei dinieghi da parte di Claudio Vitalone di un suo pur minimo coinvolgimento, di fatti che confermassero aliunde le circostanze accusatorie (in tal senso devono essere intese le indagini relative alla contemporanea presenza a Lipari della barca di Ignazio Salvo e di Claudio Vitalone nel 1992 stante l’affermazione di questo ultimo di non avere mai conosciuto i cugini Salvo ovvero le indagini svolte sulla morte di Nada Grohovac atteso che la conferma della esistenza di un qualche rapporto –indipendentemente dalle cause della sua morte- tra la Grohovac e Wilfredo Vitalone sarebbe stata un forte riscontro esterno alle dichiarazioni di Fabiola Moretti sulla esistenza di rapporti tra Enrico De Pedis e Claudio Vitalone come affermato nei suoi interrogatori, e, quindi, un notevole apporto probatorio alle indagini).
E’ altresì vero che l’indagine presenta delle carenze ma esse sono ampiamente spiegabili con la complessità dell’indagine e con il notevole lasso di tempo che è passato dal giorno del tragico evento, che a distanza di venti anni è ancora avvolto da una fitta nebbia di mistero, e le pressioni esercitate per arrivare alla soluzione del caso mai sono state fatte per fare dichiarare cose diverse da quelle che realmente la persona sapeva (significativo al riguardo è il frammento di intercettazione in casa di Fabiola Moretti la quale mentre si sta allontanando per recarsi in una località protetta si rivolge ad Alfredo Fiorelli, capo della DIA di Roma, per dirgli di essersi ricordata che in quel periodo Danilo Abbruciati era in prigione e riceve, come risposta, che la circostanza deve riferirla al giudice al quale deve dire solo le cose che sa e che ricorda). Deve, peraltro, darsi atto che l’indagine portata avanti con determinazione dalla procura della repubblica di Perugia, malgrado le lacune riscontrate, in relazione al vuoto istruttorio in cui si è dibattuta per anni l’inchiesta condotta dal PM di Roma prima della riapertura delle indagini (significative sono le circostanze che mai prima dell’attuale indagine è stato sentito Umberto Limongelli collaboratore, oltre che cugino, della vittima, il quale aveva da riferire di un pacco consegnato lo stesso giorno alla tipografia Abete che stampava OP e mai più reperito con i mancati accertamenti su un fatto che poteva avere una certa rilevanza per la soluzione del caso; o, ancora, il ritardo con cui è stata sentita la sorella di Carmine Pecorelli, Rosina, e la mancata audizione di Donato Lo Prete che pure risultava invitato alla cena presso il ristorante La Famiglia Piemontese a cui aveva preso parte lo stesso Carmine Pecorelli), è il tentativo più serio per arrivare alla scoperta degli autori del delitto che, per le ragioni che saranno dette in seguito, non sono stati individuati, da questa corte, negli attuali imputati.

CAPITOLO 04) CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA PROVA

La corte sul punto ritiene di dovere affrontare solo alcuni punti trattandosi per il resto di normali criteri di valutazione del materiale probatorio e precisamente: I criteri di valutazione delle dichiarazioni rese da persone indagate o imputate in procedimenti connessi o probatoriamente collegati (indipendentemente dalla circostanza che essi sono o meno sottoposti a regime di protezione). Sul tale argomento, va osservato quanto segue. La questione, travagliata sotto il vigore dell'abrogato codice (segno che il problema è sempre esistito) è stata risolta dal legislatore che all'art. 192 comma 3 e 4 cpp, recependo peraltro le indicazioni emerse dalla precedente interpretazione giurisprudenziale, ha stabilito che le dichiarazioni rese da coimputato in procedimento connesso o probatoriamente collegato sono valutate unitariamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità.
Dalla lettera della norma e dalla sua collocazione in un comma diverso da quello in cui si dà valenza agli indizi si evince che la chiamata in correità o in reità è una vera e propria fonte di prova nei cui confronti però il legislatore mostra diffidenza tanto da circondarla, quanto al suo valore probatorio, di particolari cautele chiedendo che essa sia confermata, quanto alla sua attendibilità, da altri elementi di prova; l’assunto è oramai pacificamente accettato in dottrina e in giurisprudenza per cui non occorre soffermarsi oltre. Elementi di prova che devono, peraltro, essere desunti ab extrinseco e non dalla stessa dichiarazione accusatoria, devono essere specifici, concreti e autonomamente certi e non presentare carattere di ambiguità risolvibile utilizzando come unico sostegno interpretativo il contenuto della chiamata di reità da riscontrare e possono essere i più vari, non avendo il legislatore tipizzato la loro natura. Peraltro tali elementi di prova, in caso di chiamate plurime devono riguardare ciascun reato e ciascun imputato, non devono raggiungere il valore di prova autonoma altrimenti sarebbe questa ultima, da sola, sufficiente per affermare o escludere la responsabilità. Quanto alla natura di tali elementi di prova essi possono essere oggettivi e sufficienti a dare riscontro alla chiamata di correità ovvero soggettivi provenienti, cioè, da dichiarazioni di altri coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato.
Va poi precisato che il riscontro obbiettivo esterno alla chiamata di correità o di reità deve essere certo e non possibile o concettuale anche se esso può vertere su un elemento non strettamente correlato alla imputazione ma necessario, insieme ad altri elementi, per una valutazione globale ed unitaria della prova. Va altresì precisato, quanto alla chiamata di correità o di reità plurima o successiva che esse devono essere estrinsecamente autonome e non frutto di collusione o di condizionamento per assurgere sotto il profilo logico giuridico, a dato di riscontro e di verifica della prima; in caso contrario vanno considerate come una unica chiamata di correità o di reità e come tale bisognevole a sua volta di riscontri esterni alle chiamate stesse. Va ancora detto che nelle versioni date da diversi coimputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato possono verificarsi discrepanze; tali discrepanze assumono rilievo sulla loro attendibilità quando vertono su circostanze rilevanti, se non proprio fondamentali, per il processo mentre se vertono su particolari di scarso rilievo lungi dall’incidere sulla loro attendibilità, sono il segno e il sintomo di una autonomia di conoscenza della stessa circostanza e ciò può influire sulla reciproca valenza probatoria delle singole dichiarazioni.
Quello che si è fino ad ora detto attiene al valore probatorio della chiamata in correità o in reità; ciò non significa che preliminare al riscontro oggettivo delle affermazioni del chiamante in correità o in reità debba accertarsi - alla pari dell'accertamento della attendibilità di qualsiasi persona esaminata nel processo - la sua attendibilità intrinseca. Attendibilità che va tenuta ben distinta dai motivi che hanno portato il coimputato o l'imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente a rendere dichiarazioni accusatorie. Tali motivi attengono alla sfera interiore del chiamante e possono variare da un calcolo utilitaristico (come la percezione di contributi a carico dello stato o la esclusione di condizioni carcerarie particolarmente dure), al vero pentimento e al desiderio di uscire dal mondo della delinquenza. Essi sono indifferenti per il diritto perché il legislatore nel disciplinare il mezzo di prova ha richiesto solamente che il chiamante sia attendibile e che le sue dichiarazioni siano riscontrate e devono presentare caratteristiche di convergenza in ordine al fatto materiale della narrazione, di indipendenza nel senso sopra enunciato, e di specificità nel senso che la cosiddetta convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante ossia devono confluire su fatti che riguardano direttamente l’incolpato e l’imputazione a lui attribuita.
Cioè posto, e in aderenza ai criteri elaborati dalla suprema corte che ha avuto modo di interessarsi ripetutamente del problema, l'attendibilità, la credibilità di tali soggetti va valutata in modo rigoroso per cui le loro dichiarazioni devono, per essere meritevole di considerazione, apparire - a causa della loro genuinità, specificità, coerenza, univocità, costanza, spontaneità e disinteresse - serie e precise. In particolare l’attendibilità del dichiarante va posta in discussione ogni qual volta le sue affermazioni possono essere ispirate da desiderio di vendetta, di copertura di complici od amici, da compiacimento verso gli organi di polizia o dell’accusa Va ancora precisato, sul punto, che per la credibilità generale o intrinseca del chiamante in correità o in reità non viene scalfita da piccole incoerenze o contrasti con altri elementi probatori acquisiti al processo purché le dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità dei chiamati in correità o in reità trovi il supporto dei riscontri oggettivi.
Quanto sopra detto esclude che la corte aderisca alla tesi, prospettata dalla corte di assise di Catania del 12 maggio 1995 e fatta propria dal difensore di Gaetano Badalamenti e Michelangelo La Barbera che non esiste il disinteresse dei collaboratori di giustizia perché essi hanno sempre un interesse, legislativamente previsto, ad accusare in correità o in reità dipendendo dal loro obbligo di dire tutto quello che sanno il godimento di benefici sia processuali che extra processuali. Ritiene infatti la Corte che il disinteresse richiesto per la credibilità del chiamante in correità o in reità non va identificato con la mancata fruizione di agevolazioni o benefici, che essendo legislativamente previsti sono comuni a tutti i chiamanti in reità di talché se il primo si identificasse con l’assenza dei secondi, si verrebbero di fatto ad escludere dalle fonti di prova le deposizioni dei chiamanti in reità o in correità; il fatto, al contrario, che il legislatore ha previsto e disciplinato autonomamente questa fonte di prova è il segno che il disinteresse richiesto per affermare la credibilità del dichiarante deve consistere in qualcosa di diverso e riguardare espressamente i fatti che il chiamante in reità o correità va a raccontare. In sostanza, il disinteresse richiesto, a parere della corte, va identificato nella assenza di intenti calunniatori o nella mancanza di un vantaggio personale, in relazione ai fatti narrati, che da tale dichiarazione può derivare al chiamante in reità o in correità.
Ritenere il contrario, significa svuotare di ogni significato e sostanza la legge che prevede espressamente per coloro che collaborano con la giustizia la corresponsione di benefici di natura patrimoniale e il godimento di benefici di natura processuale. Le considerazioni sopra fatte rendono sterile, a giudizio della corte, la disputa sul fenomeno del c.d. pentitismo perché esso è estraneo al processo; fino a quando il legislatore non interviene sulle modalità di gestione dei collaboratori di giustizia, fino a quanto il legislatore non modifica i criteri di valutazione della prova fornita dai chiamanti in reità o in correità, la corte, proprio in ossequio al tanto invocato principio del rispetto delle norme, deve tenere conto, nella valutazione complessiva della prova, anche delle dichiarazioni dei chiamanti in correità o in reità applicando ad esse quei criteri interpretativi di cui sopra si è detto. Una ultima annotazione di carattere generale, perché comune a tutti i coimputati in procedimento connesso o probatoriamente collegato e anche a molti testimoni che hanno avuto esperienze carcerarie e cioè che non può assumere alcun rilievo, ai fini della valutazione delle dichiarazioni accusatorie la personalità negativa dei dichiaranti essendo questa un connotazione comune a tutti coloro che sono imputati nello stesso reato o in reati connessi o a quelli collegati in quanto il legislatore, nel dettare le norme per la valutazione della loro attendibilità, ha introdotto dei criteri limitativi della valenza probatoria.
Ciò per contrastare la tesi difensiva secondo cui la provenienza dei chiamanti in reità dal mondo della malavita organizzata escluda, per questo solo fatto, la loro credibilità a fronte delle dichiarazioni degli imputati specchiati e stimati cittadini. Connesso al problema della attendibilità degli imputati in procedimento connesso o collegato probatoriamente è quello relativo all’influenza che su tale giudizio deriva dal giudizio espresso da altre autorità giudiziarie sulla attendibilità dello stesso imputato. Sul punto la corte ritiene che il giudizio di attendibilità o di inattendibilità dell’imputato in procedimento connesso o collegato già espresso da altro organo giudicante non sia vincolante e che il nuovo organo giudicante possa e debba fare un nuovo giudizio di attendibilità anche alla luce di nuovi (eventuali) fatti che possono mutare tale giudizio. In aderenza a tale principio questa corte non è tenuta ad aderire pedissequamente a tali giudizi (trattandosi proprio di giudizi), ma ciò non esclude che gli elementi di fatto posti a base del giudizio di attendibilità espresso da altri organi giudicanti possano e debbano essere tenuti presenti nel formulare il proprio giudizio sulla attendibilità (o inattendibilità) del chiamante in reità o in correità per giungere, indifferentemente, ad un giudizio analogo o diverso.
Il regime probatorio delle dichiarazioni di persone che nel corso del dibattimento hanno modificato la loro posizione da persona indagata in procedimento connesso o collegato in quella di testimone. Si è infatti rilevato che Fabiola Moretti e Tommaso Buscetta, escussi nel corso delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 210 cpp stante il collegamento probatorio tra il reato di partecipazione a Cosa Nostra o alla associazione criminale operante in Roma all’epoca dell’omicidio di Carmine Pecorelli, detta d’ora in avanti per comodità banda della Magliana, loro ascritto e quello per cui è processo hanno perso tale qualifica essendo venuta meno, per definizione della loro posizione, la qualifica di imputato in procedimento collegato probatoriamente. Partecipazione che deve ritenersi cessata, salvo prova contraria, al momento in cui essi si sono dissociati dal sodalizio criminale collaborando con gli organi inquirenti.
In tal caso ritiene il collegio che la loro deposizione deve essere valutata come testimonianza, anche se sottoposta a particolare vaglio stante le modalità dell’originaria assunzione che svincolava la persona che rendeva dichiarazioni da conseguenze giuridiche in caso di mendacio o reticenza, dovendosi applicare il principio "tempus regit actum" e cioè dovendosi applicare la disciplina che regola la posizione processuale del soggetto da esaminare al momento della sua assunzione. Ciò, vale in particolare per Fabiola Moretti che nel corso del suo esame ha posto in essere una "sceneggiata" per giustificare la sua volontà di non riferire alla Corte quello che effettivamente sapeva e sottrarsi quindi al legittimo contraddittorio delle parti. "Sceneggiata" che ha comportato, come meglio sarà detto in seguito, la trasmissione degli atti al PM per il reato di reticenza ai sensi dell’art. 372 cp.
Porta a questa conclusione una corretta interpretazione dell’art. 197 cpp. Invero (sul punto la corte richiama le numerose ordinanze emesse nel corso del dibattimento in cui ha chiarito il diverso regime che governa l’assunzione della prova nel caso che la persona sia stata qualificata imputata o indagata di procedimento connesso o di procedimento probatoriamente collegato e le conferma integralmente), l’incompatibilità alla testimonianza di cui al citato art. 197 cpp postula prima di tutto che sia stata assunta effettivamente la qualità di indagato, e non anche che vi sia la mera possibilità che ciò avvenga, e che tale qualifica sia ancora attuale al momento della assunzione della deposizione. Si tratta dunque di stabilire in via generale se l’incompatibilità permanga anche dopo l’eventuale provvedimento di archiviazione o di conclusione in via definitiva del processo. Esaminando la questione nei suoi vari aspetti, va osservato come la norma de qua tanto alla lettera a), concernente la connessione, quanto alla lettera b), concernente il collegamento, faccia riferimento alla qualità di imputato, cioè a quella particolare condizione che si acquisisce per effetto dell’attribuzione della formale imputazione in uno degli atti tipici indicati dall’art. 60 cpp. Muovendo da tale osservazione e dall’ulteriore considerazione del carattere di norma eccezionale, attribuibile all’art. 197 cpp, la Suprema Corte in una prima pronuncia aveva ritenuto che l’incompatibilità non possa essere estesa oltre i limiti risultanti dalla norma e che in particolare non possa applicarsi a chi rivesta la mera qualità di indagato, tanto meno dopo un provvedimento di archiviazione (Cass. I, 28-9-1992, Perruzza).
In realtà, al di là del carattere eccezionale dell’art. 197 cpp, militava in tale direzione una valutazione complessiva del sistema. Infatti la qualità di indagato si acquista per effetto della mera iscrizione da parte del P.M. nel registro di cui all’art. 335 cpp. Ma tale iscrizione, contrariamente all’assunzione della qualità di imputato, potrebbe restare sconosciuta a tutti, compreso il diretto interessato, ed anzi, a rigore, dovrebbe rimanerlo, salvo il caso del compimento di determinati atti di indagine. A seguito della riforma introdotta ex lege 332/95 è oggi possibile acquisire notizia di iscrizioni ostensibili, ma la circostanza non muta il quadro complessivo, connotato da tendenziale segretezza, tale da rendere molto spesso non concretamente invocabile la causa di incompatibilità. Si comprende dunque che il legislatore avesse fatto riferimento alla qualità di imputato senza estensioni. Ma nella stessa direzione milita non meno incisivamente l’ulteriore rilievo che l’iscrizione potrebbe dipendere da scelte arbitrarie dell’A.G. competente, in ipotesi non sorrette neppure da minimi indizi: si pensi ad es. al caso di morte dovuta ad intervento chirurgico, a seguito della quale vengano indiscriminatamente iscritti nel registro degli indagati tutti coloro che abbiano partecipato all’operazione nelle varie vesti.
Anche nell’ipotesi di rapida archiviazione a favore della gran parte degli iscritti, dovrebbe a rigore permanere una causa di incompatibilità alla testimonianza, all’evidenza ingiustificata ed anzi dannosa. Sta di fatto che la Corte Costituzionale con sentenza n. 108/92, pronunciandosi in un caso in cui veniva dedotta la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 197 lett. a) cpp, ha ritenuto che l’incompatibilità si estenda anche ai meri indagati, stante il disposto dell’art. 61 cpp, ed ha inoltre affermato che la causa di incompatibilità permane, in caso di reati connessi, anche dopo il provvedimento di archiviazione, ciò desumendosi dal fatto che l’art. 197 lett. a) cpp espressamente prevede quella permanenza anche nella fase successiva alla perdita della qualità di imputato, escludendola nel solo caso di proscioglimento pronunciato con sentenza irrevocabile. La Suprema Corte si è successivamente conformata a tale orientamento (Cass. VI, 11-4-1994, Curatola) che ha espressamente ravvisato l’incompatibilità nei confronti dell’indagato per reato connesso anche nell’ipotesi di intervenuta archiviazione. Ma nessuna pronuncia ha mai esaminato il caso dell’incompatibilità di cui all’art. 197 lett. b) cpp, ipotesi non considerata neppure dalla Corte Costituzionale, occupatasi della sola lett. a).
E’ bene chiarire che, date le premesse giuridiche della citata sentenza n. 108/92, non sembra possibile escludere l’incompatibilità, anche con riguardo alla lettera b), nell’ipotesi di mera sottoposizione ad indagini, ciò in virtù dell’art. 61 cpp, cui è stata riconosciuta valenza di carattere generale anche ai fini de quibus. Restano tuttavia le perplessità di fondo su un’indiscriminata estensione dell’incompatibilità, perplessità che potrebbero tradursi in un vizio di illegittimità costituzionale per irragionevolezza della disciplina, a fronte dell’indubbia incidenza che l’incompatibilità può avere sulla ricerca della prova e della verità, nell’ipotesi in cui essa fosse ingiustificatamente estesa oltre i limiti suoi propri e sulla base di scelte demandate al solo P.M. In altre parole non sembra che possa essere eluso il problema di attribuire all’incompatibilità di cui all’art. 197 cpp un significato restrittivo, per lo meno quando esso sia consentito dal sistema e dal tenore letterale delle norme.
Ed allora deve osservarsi che, con riferimento all’ipotesi del collegamento probatorio, l’art. 197 lett. b) cpp non riproduce esattamente il disposto della lett. a), in quanto fa riferimento solo all’imputato, omettendo di considerare altresì l’ipotesi del proscioglimento o della condanna definitivi. Ciò significa che la norma non offre quell’appiglio, invocato anche dalla Corte Costituzionale, per giungere ad affermare che non è necessaria l’attualità della qualità di imputato (o di indagato). Al contrario, la circostanza che una siffatta clausola non sia stata riprodotta induce ad ritenere che il legislatore, almeno in questo caso, abbia inteso escludere l’incompatibilità, ogni qual volta la qualità di imputato sia stata perduta, il che avviene nelle ipotesi di cui all’art. 60 cpv cpp (sentenza definitiva di proscioglimento o di condanna, sentenza non impugnabile di non luogo a procedere, decreto penale di condanna esecutivo). Si è però da taluno sostenuto che la mancata riproduzione nella lett. b) di quanto disposto nella lett. a) sia dovuto a mera imprecisione della norma. Ciò deve in realtà escludersi. A tal fine deve considerarsi che in caso di incompatibilità il dichiarante potrebbe essere escusso solo con le forme di cui all’art. 210 cpp.
Ebbene, l’art. 210 cpp, nel primo comma, prescindendo ora dalle interpolazioni introdotte dalla sentenza n. 361/98 della Corte Costituzionale, fa riferimento all’ipotesi di persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 cpp, "nei confronti delle quali si procede o si è proceduto separatamente": non v’è dubbio che la formulazione sia coerente con l’art. 197 lett. a) cpp, che prende in considerazione anche il caso di persone ormai giudicate, nei confronti delle quali dunque "si è proceduto". Per contro l’art. 210 cpp all’ultimo comma estende la medesima disciplina "sic et simpliciter" alle persone imputate di reato collegato: l’assenza di ulteriori specificazioni è parimenti conforme al disposto dell’art. 197 lett. b), giacché, escludendosi qualsiasi riferimento a coloro nei confronti dei quali si è già proceduto, si finisce per sottolineare che deve trattarsi di persone che "in atto" rivestano la qualità di imputati (o di indagati).
Ed allora la conclusione da trarre è che nel caso di cui alla lett. b) dell’art. 197 l’incompatibilità non sussiste, allorché la qualità di imputato o di indagato sia venuta meno. Avalla tale conclusione il fatto che mai un procedimento nei loro confronti potrebbe riaprirsi, stante l’intervenuta definitività della condanna. Né rileva, come contrariamente asserito da talune difese, che è sempre possibile, in caso di definitività della sentenza, un processo per revisione atteso che la ratio della norma è quello di tutelare il dichiarante da dichiarazioni pregiudizievoli per se stesso per cui un eventuale processo per revisione può essere solo più favorevole al richiedente e mai ad esso pregiudizievole).
Quanto detto esclude che si possa accedere alla tesi, pur prospettata dalla difesa di Claudio Vitalone della non utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Fabiola Moretti sia come teste che come imputata di procedimento collegato probatoriamente (ma identiche considerazioni possono farsi anche per il teste Buscetta). Utilizzabilità delle deposizioni degli imputati in procedimento connesso o collegato probatoriamente che si sono avvalsi della facoltà di non rispondere i quali, richiamati ai sensi dell'art. 6 L. 97/267, si sono avvalsi nuovamente della facoltà di non rispondere. Le loro dichiarazioni sono state di conseguenza acquisite legittimamente al dibattimento perché di esse è stata data lettura ai sensi dell’art. 513 cpp. Il riferimento è agli imputati in procedimento connesso Carlo Adriano Testi, Donato Lo Prete e Walter Bonino. Al riguardo si osserva che nel corso del dibattimento è intervenuta, ai sensi della L.97/267, la modifica dell’art. 513 cpp relativo alle letture delle dichiarazioni rese da imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente; norma a sua volta dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale che ne ha, con sentenza interpretativa, modificato il senso ed il contenuto (di ciò peraltro non è il caso di occuparsi essendo irrilevante per il caso di specie non avendo la corte costituzionale dichiarato la illegittimità dell’art. 6 della citata L 97/267 quando la fattispecie ivi disciplinata si fosse già completata con il richiamo del imputato in procedimento connesso o collegato probatoriamente.
Orbene, nel caso di specie, la disciplina transitoria, in questo processo era già stata completata per cui nella valutazione della prova va applicata la disciplina indicata nello stesso articolo 6 L. 97/267 che stabilisce che le dichiarazioni rese in precedenza possono essere valutate come prova dei fatti in essi affermati, solo se la loro attendibilità sia confermata da altri elementi di prova, non desunti da dichiarazioni rese al PM o alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nella udienza preliminare di cui sia stata data lettura ai sensi dell’art. 513 cpp nel testo vigente prima della entrata in vigore della L. 97/267. La disciplina applicabile al caso concreto, quindi, esclude che tali dichiarazioni possano essere utilizzate se confermate solo da dichiarazioni rese da altri imputati in processo connesso o collegato che si siano avvalsi della facoltà di non rispondere e le loro dichiarazioni siano state acquisite al fascicolo del dibattimento. Così inteso il senso e la ratio della norma essa appare più favorevole agli imputati nel caso in cui le stesse persone, richiamate in ossequio alla disciplina dettata dalla Corte Costituzionale con il suo intervento interpretativo, perché in questo ultimo caso se la persona richiamata si avvale nuovamente della facoltà di non rispondere le sue dichiarazioni contestate possono essere confermate da dichiarazioni di altre persone che a loro volta richiamate si sono avvalse della facoltà di non rispondere senza la limitazione stabilita all’art. 6 L. 97/267. Il criterio di valutazione delle notizie circolanti nell’ambito della stessa organizzazione criminale. Al riguardo si osserva (cass. Sez. 1 n. 11969 del94/10/11, Capriati) che il divieto di testimonianza, con la sua conseguente inutilizzabilità delle voci correnti tra il pubblico, indicata nell’art. 194 cpp comma terzo non è applicabile alle notizie circoscritte ad una cerchia ben determinata ed individuabile di persone come gli appartenenti ad una associazione a delinquere; ciò vale in particolare per gli appartenenti alla banda della Magliana i quali, come si evince dalla sentenza emessa dalla Corte di assise di Roma nei confronti dei suoi membri (sentenza che sulla esistenza della associazione a delinquere è oramai definitiva vertendo il rinvio operato dalla Corte di Cassazione solo sulla qualifica del sodalizio criminoso come associazione di stampo mafioso e non sulla esistenza della associazione a delinquere).

Utilizzabilità degli atti per la decisione. Sul punto si osserva che con la entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel nostro ordinamento è stato introdotto una nuova sanzione che può colpire l’atto giudiziario: la sua inutilizzabilità. Ciò significa che l'atto non affetto da nullità o da annullabilità, non affetto da alcuna irregolarità è pur tuttavia entrato non legittimamente a fare parte del fascicolo del dibattimento. Si tratta di sanzione meno grave della nullità perché non ha alcun effetto sulla validità dell’atto compiuto e non ha conseguenze sul regolare svolgimento del dibattimento influendo essa solo sulla decisione in quanto degli atti inutilizzabili non può tenersi alcun conto ai fini della decisione.
Recita in tal senso l’art. 526 cpp che impone al giudice di deliberare solo sulla base di prove legittimamente acquisite al dibattimento ai sensi dell’art 191 cpp. anche se la violazione della norma nella acquisizione della prova non sia sanzionata in alcun modo. D’altro canto tale sanzione può avere effetti rilevantissimi nel processo perché la inutilizzabilità della prova (che può essere parziale o totale) può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio anche di ufficio (art. 191 comma 2 cpp). Consegue da ciò che una valutazione della prova assunta nel corso del dibattimento ai fini della dichiarazione di inutilizzabilità, totale o parziale, può essere fatta dalla corte in camera di consiglio e fondare la sua decisione non su tutte le prove assunte, ma solo su quelle ritenute legittimamente acquisite indipendentemente dalla dichiarazione di utilizzabilità fatta al termine del dibattimento. In tal senso ritiene la corte che non può tenersi conto, perché viziate da inutilizzabilità, del contenuto delle testimonianze di alcuni ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che hanno riferito del contenuto di circostanze apprese da persone che in quel momento rivestivano la qualità di imputato ovvero del contenuto dei colloqui investigativi stante il divieto legislativo in tal senso o ancora delle informative contenute negli atti pervenuti da organi dei servizi segreti che non hanno avuto una specifica conferma salvo il loro valore come prova della loro materiale esistenza o ancora dei rapporti giudiziari e delle testimoniante rese in istruttoria (secondo la disciplina del vecchio codice di procedura penale) che non possono transitare in questo dibattimento se non nelle forme previste dal nuovo codice di procedura penale. Di altri atti sarà poi fatta specifica menzione di inutilizzabilità nel corso della esposizione. Il valore probatorio delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Nel corso delle indagini preliminari sono state disposte numerose intercettazioni telefoniche ed ambientali a carico di una pluralità di soggetti. Orbene, se non vi sono dubbi che tali intercettazioni costituiscono mezzo per la ricerca della prova, è altrettanto indubbio che il contenuto delle intercettazioni, trascritto nelle forme di legge, costituisce materiale probatorio che, mettendo in relazione in modo immediato e diretto la persona che parla con le affermazioni da lei fatte, può essere messo a fondamento della decisione del giudice in uno con gli altri elementi probatori raccolti nel corso del giudizio. Il contenuto delle conversazioni intercettate costituisce, quindi, a giudizio della Corte di Assise, prova autonoma dei fatti ivi registrati.
Tali elementi, poi, trattandosi nel caso di specie, anche di conversazioni intercettate a persone imputate di reato connesso assumono anche il connotato di riscontro esterno alle dichiarazioni rese alla autorità giudiziaria. Perché ciò accada è necessario, però, che: non vi siano elementi che conducano ad un giudizio di inattendibilità del contenuto delle conversazioni intercettate dovendosi escludere valore autonomo di prova o di riscontro se emerge che la persona intercettata era a conoscenza della intercettazione in atto nei suoi confronti; è evidente che in tal caso verrebbe meno la genuinità delle affermazioni fatte e la loro valenza probatoria sarà nulla o quantomeno grandemente scemata se non vi fossero altri elementi estranei alle conversazioni intercettate e alle dichiarazioni rese dall’imputato di procedimento connesso o probatoriamente collegato. È necessario che venga data una interpretazione del linguaggio usato nelle conversazioni intercettate non potendosi basare esclusivamente sul tenore letterario delle frasi registrate e prescindere dal contesto dell’intero discorso. Proprio in aderenza a questo principio ritiene la corte che alle conversazioni intercettate sia applicabile il criterio della scindibilità della valutazione della prova, applicato massimamente per la prova testimoniale, per cui può ritenersi provata solo una delle circostanze emergenti dalla conversazione intercettata e nel contempo disattenderne altre. Questi sono i criteri che la corte seguirà nell’esame del caso sottoposto al suo vaglio.

CAPITOLO 05) LA DINAMICA DELL’OMICIDIO

La sera del 20.3.1979 nella sua auto, parcheggiata in via Orazio alcuni colpi di pistola tolgono la vita al giornalista Carmine Pecorelli. Gli elementi probatori acquisiti al dibattimento per la ricostruzione dell’evento sono: la sera del 20.03.1979 intorno alle ore 20.30/20.35 Carmine Pecorelli, Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi lasciavano la redazione di OP sita in via Tacito 50. Paolo Patrizi e Carmine Pecorelli accompagnavano Franca Mangiavacca al posto ove era parcheggiata l’auto di questa ultima. In particolare i tre si erano diretti verso la macchina della Mangiavacca, parcheggiata sulla sinistra uscendo dalla redazione di OP all’angolo tra via Tacito e via Ennio Quirino, ove si erano salutati; Di lì Paolo Patrizi si recava in via Cicerone per prendere l’autobus, ma poiché non aveva moneta tornava indietro e si recava nel bar sito nelle adiacenze della redazione di OP per rifornirsi di moneta spicciola, mentre Carmine Pecorelli, attraversava via Tacito per andare alla sua macchina che era posteggiata in via Orazio, strada parallela a via Tacito. Franca Mangiavacca, dopo essere salita in macchina, in retromarcia si era immessa in via Tacito, l’aveva percorsa obbligatoriamente per svoltare poi a sinistra in via Plinio, e quando aveva attraversato l'incrocio di via Plinio con via Orazio, ove era parcheggiata la macchina di Pecorelli aveva visto vicino allo sportello anteriore, quello della guida, una figura con un impermeabile chiaro (circostanza riferita solo nel 1984) e la macchina con le ruote posteriori sul marciapiede. Avendo però superato l’incrocio, aveva frenato e a retromarcia era tornata sull'incrocio, ma non aveva più visto la persona con l’impermeabile bianco ma aveva visto, in quel momento all’incrocio opposto a quello ove si trovava una figura vestita di scuro(circostanza riferita, anche questa tardivamente). Franca Mangiavacca si era diretta verso la macchina di Carmine Pecorelli; era scesa dalla macchina e lo aveva visto sanguinante, ma non ricordava esattamente la posizione del corpo. L’aveva chiamato una prima volta e Carmine Pecorelli aveva risposto rantolando, la seconda volta non aveva più risposto.
Franca Mangiavacca era ripartita cercando la persona con l’impermeabile bianco, ma non l’aveva rivista. Era ritornata all’altro quadrivio (quello ove aveva parcheggiato la sua macchina e aveva visto di nuovo Paolo Patrizi che stava uscendo dal bar ove si era recato a cambiare moneta, e con lui, che era salito in macchina, era ritornata sul posto. Qui aveva toccato il corpo di Pecorelli (la circostanza è riferita anche da Paolo Patrizi il quale ha affermato che al tocco di Franca Mangiavacca il corpo di Carmine Pecorelli si era mosso. In quel frangente, anche se Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi non sapevano indicare il tempo trascorso, era passato di lì l’allievo carabiniere Ciro Formuso, diretto alla caserma esistente nei pressi, al quale Franca Mangiavacca aveva chiesto aiuto e con il quale si era recato nel bar esistente all’angolo di via Orazio (diverso da quello ove Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi si erano incontrati prima di ritornare sul luogo del delitto). Ciro Formuso avvisava la centrale dei carabinieri. Nel ritornare sul luogo del delitto Franca Mangiavacca, sebbene avvisata da Ciro Formuso di non toccare nulla, aveva raccolto due bossoli e subito dopo li aveva rimessi sul terreno. Anche Ciro Formuso aveva toccato il cadavere che si era mosso. Nessuno dei tre presenti e cioè Franca Mangiavacca, Paolo Patrizi e Ciro Formuso aveva aperto (a loro dire) la portiera destra dell’auto ed il cassetto portaoggetti.
Nel giro di pochi minuti erano arrivati sul luogo del delitto il colonnello Cornacchia, il capitano Tomaselli, il tenente Mascia e il tenente Alfieri. Nessuno sparo era stato udito da Franca Mangiavacca. Veniva avvisato il sostituto procuratore di turno e il medico legale e successivamente, poiché il colonnello Cornacchia riteneva che potesse trattarsi di un delitto delle Brigate Rosse, veniva rintracciato anche il PM Domenico Sica, che all’epoca si occupava di terrorismo di sinistra, il quale si trovava a cena a casa di Maria Di Bernardo insieme a Claudio Vitalone, al Procuratore capo di Roma Giovanni De Matteo, al colonnello Antonio Varisco e a Walter Bonino. Mentre il capitano Tomaselli si recava nella caserma dei carabinieri, ove erano stati portati Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi, i PM intervenuti e gli ufficiali di polizia giudiziaria si recavano nella redazione della rivista OP, anche dopo avere aperto una cassaforte ivi esistente, ove veniva sequestrata la documentazione esistente. La perquisizione veniva estesa anche alla abitazione di Carmine Pecorelli.
Venivano eseguiti i rilievi del caso che portavano per quello che qui interessa ai seguenti accertamenti:
Lungo via Orazio, sulla destra per chi la percorre secondo il suo senso unico di marcia, all'altezza del civico 10/F, in corrispondenza di un fabbricato completamente occupato dall'Ufficio del registro - le cui stanze a piano terra sono protette da una inferriata - era stata rinvenuta l'auto tg. ROMA R 08195, posta trasversalmente alla sede stradale e sul marciapiede, che con la parte posteriore toccava la saracinesca di protezione del civico 10/F, e che presentava tracce di urto contro detta saracinesca. Sul marciapiede, prima della fiancata sinistra dell'auto erano stati trovati quattro bossoli di pistola cal 7,65; di essi due erano di marca G.L.F. E due GEVELOT. L'auto, di colore verde, si presentava con i fari anteriori e posteriori accesi e con la luce direzionale intermittente di destra in funzione. Le sue ruote anteriori poggianti sulla strada accanto al marciapiede, erano rivolte verso la destra. I due sportelli anteriori erano aperti ed i vetri alzati. Il cristallo dello sportello anteriore sinistro si presentava squamato e con una rottura a forma irregolare con margini frastagliati nella porzione mediana e con andamento trasversale rispetto allo sportello. La rottura presentava, nei limiti più estremi, una lunghezza di cm 52 e una altezza di cm 15 e sul bordo superiore un contorno a semicerchio del diametro di cm 1 contornato da una raggiera fitta con le venature del cristallo protese verso l'alto. Sul marciapiede antistante lo sportello dell'auto erano sparsi frammenti di vetro appartenenti al cristallo frantumato. Nella parte posteriore, in corrispondenza del fanale posteriore sinistro, e sul paraurti sinistro vi era una lieve ammaccatura prodotta dall'urto della vettura contro la saracinesca.
All'interno dell'auto giaceva il corpo di Carmine Pecorelli che poggiava con il torace sul sedile anteriore destro e con le gambe stese e unite tra il sedile ed il pianale sinistro. Il corpo era disteso nella quasi totalità e leggermente obliquo rispetto all'asse trasversale della autovettura mentre i piedi erano bloccati contro la parete anteriore sinistra del vano guida alla quale rivolgevano la pianta. Il corpo poggiava con la fronte sulla cornice interna e sulla guarnizione in gomma del sotto porta dello sportello anteriore destro in parte sporco di sangue. L'arto superiore destro era piegato sotto il torace mentre il sinistro era addotto al corpo e leggermente piegato. Sotto il torace, sul sedile anteriore destro, vi erano alcuni quotidiani "Paese Sera" in parte sporchi di sangue. Sul marciapiede, appena sotto l'autovettura, in corrispondenza della testa del cadavere, vi era la dentiera accanto alla quale vi erano piccole macchie di sangue e frammenti di denti. Il cadavere aveva ancora occhiali da vista. Veniva disposta perizia necroscopica/balistica, confermata a dibattimento, che portava ai seguenti risultati.
L'esame esterno dei vestiti aveva posto in evidenza:
- una soluzione di continuo nella parte posteriore della giacca a cm 10 dal margine inferiore, immediatamente a destra della cucitura mediana del diametro di circa mm 5;
- altra soluzione di continuo immediatamente alla sinistra della cucitura mediana del diametro di circa mm 8 e a quota dal margine inferiore di cm 34;
- altra soluzione di continuo in corrispondenza della cucitura laterale sinistra a quota cm 41 dal margine inferiore;
- nella parte posteriore dei calzoni a cm 3 circa a destra della cucitura mediana posteriore una soluzione di continuo del diametro di circa mm 6; nella parte anteriore sinistra nel terzo inferiore una macchia rotondeggiante di materiale ematico e inferiormente a tale macchia è adeso un frammento di circa mm 6, di forma triangolare, riferibile a frammento osseo.
- In corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro veniva notata una soluzione di continuo di forma allungata con asse maggiore di cm 1,5 e l'altro di cm 0,8 contornato da orletto ecmotico escoriato con margine regolare prodotto da colpo da arma da fuoco in entrata. Il viso presentava anche zone di soluzione di continuo. Nella regione sacrale veniva notato un foro di entrata prodotto da colpo di arma da fuoco e altro foro di entrata veniva osservato nella regione scapolare. Infine un quarto foro di entrata di colpo sparato da arma da fuoco veniva repertato nella regione toracica laterale sinistra. L'esame radiologico aveva posto in evidenza:
- presenza nel cavo orale di corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile di arma da fuoco; presenza nel torace di tre corpi estranei radiopachi riferibili due a proiettili di arma da fuoco ed il terzo a piccolo frammento di proiettile di arma da fuoco. Uno dei due proiettili si rilevava a livello del margine superiore della scapola sinistra in posizione anteriore; l'altro alla altezza della quinta costola di sinistra in posizione anteriore a livello della parasternale di sinistra; il frammento a densità metallica si rileva sul margine superiore della seconda costola di sinistra a cm 3 circa al di sotto del corpo estraneo radiopaco descritto per primo e sulla sua verticale.
- fratture della terza, quarta e quinta costola di sinistra.
- intaccatura del margine superiore della scapola di sinistra.
- presenza nell'addome di un corpo estraneo radiopaco riferibile a proiettile di arma da fuoco a livello della apofisi spinosa della quinta vertebra lombare in posizione lievemente spostata verso sinistra. L'esame esterno del cadavere aveva posto in evidenza, per quello che qui interessa:
- in corrispondenza dell'emilabro superiore sinistro, a cm 1 dal margine superiore dello stesso e a cm 1,5 dalla commissura labiale una soluzione di continuo di forma ellittica con asse maggiore di mm 15, quasi parallelo all'asse longitudinale del corpo, e asse minore di mm 8 circondato da un orletto ecchimotico; in corrispondenza della soluzione si diparte un tramite che si approfonda in cavità….
- nella regione zigomatica sinistra piccole soluzioni di continuo nelle quali sono infissi piccoli cristalli a consistenza vetrosa e trasparente.
- analoghe soluzioni di continuo con presenza dei piccoli cristalli vi sono nella regione mentoniera sinistra. - frattura delle ossa proprie del naso con lesione lacero contusa a carico del terzo superiore del naso prevalentemente a sinistra.
- nella faccia posteriore dell'emitorace sinistro, a cm 9 dalla plica ascellare, a cm 17,5 dalla spina vertebrale e a cm 130 dal piano calcaneare sinistro, soluzione di continuo di forma lievemente ovale con asse maggiore di mm 9 contornato da orletto ecchimotico-escoriato a cui faceva seguito un tramite che si approfondiva in cavità.
- sempre nella stessa zona altra soluzione di continuità con analoga struttura, sita a cm 10 inferiormente all'angolo scapolare, a cm 11 dalla apofisi spinosa della 12ø vertebra dorsale e a cm 121 dal piano calcaneare.
- in regione sacrale destra, immediatamente a destra della linea mediana, a cm 95 dal piano calcaneare altra soluzione di continuo con le stesse caratteristiche prima descritte. L'esame autoptico aveva posto in evidenza per quello che qui interessa:
- sul margine infero-laterale sinistro della lingua, immediatamente a lato della punta, una soluzione di continuo cui fa seguito un tramite al cui fondo viene repertato un proiettile da arma da fuoco a cm 159 dal piano calcaneare.
- frattura della 3ø, 4ø e 5ø costola sinistra sulla emiclaveare, intaccatura del margine superiore della scapola di sinistra;
- emotorace sinistro con soluzione del pericardio. - due soluzioni di continuità… nella parete anteriore del cuore che rappresentano una il foro di entrata e uno il foro di uscita di un proiettile di arma da fuoco con andamento dal basso verso l'alto, da sinistra a destra e lievemente postero-anteriore.
- polmone sinistro collassato con due soluzioni di continuo in contiguità tra loro di cui quella inferiore è verosimilmente riferibile al foro di entrata e quella superiore al foro di uscita di un proiettile da arma da fuoco; polmone destro espanso per enfisema vicariante. - nello spessore delle parti molli dell'emitorace di sinistra , parte alta, vengono repertati due proiettili da arma da fuoco; uno a livello del piano di proiezione anteriore del margine superiore della scapola di sinistra a cm 143 dal piano calcaneare e l'altro a livello della 5ø costola di sinistra, sulla parasternale sinistra a cm 137 dal piano calcaneare.
- a sinistra della apofisi spinosa della 5ø vertebra lombare viene repertato un proiettile da arma da fuoco. Sulla base dei dati su indicati i periti ritenevano che la causa della morte di Pecorelli, avvenuta intorno alle ore 20 del 19/3/1979, era da attribuire alla lacerazione di organi interni
- cuore e polmoni - con conseguente emorragia interna e anemia generalizzata prodotte da proiettili di arma da fuoco che avevano attinto Pecorelli in varie parti del corpo e che erano stati repertati al fondo del loro tragitto all'esito dell'esame necroscopico.

Gli elementi utili per la individuazione del mezzo che aveva causato la morte del Pecorelli era costituita da:
- quattro bossoli con capsula percossa, ritrovati sul luogo dell'omicidio.
- 4 proiettili estratti dal corpo di Pecorelli durante la perizia necroscopica. L'esame dei bossoli aveva evidenziato: - i bossoli repertati sul luogo dell'omicidio erano risultati essere due recanti sul fondo il marchio "+GEVELOT+ 7,65" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32 Auto fabbricate dalla ditta francese Gevelot S.A., 50 Rue Ampere e due recanti il marchio "G.F.L. 7,65 mm" provenienti da cartucce calibro 7,65 Browning/.32 Auto fabbricate dalla ditta Giulio Fiocchi di Lecco Italia. - i quattro proiettili potevano essere esplosi da una pistola semiautomatica o automatica avente cameratura specifica per il calibro 7,65 Browning/32 Auto. - i bossoli marca "GEVELOT" avevano caratteristiche anche metallurgiche di identità perfetta. - i due bossoli marca Fiocchi sono simili a quelli Gevelot ma si differenziano per la struttura micrometallografica, ma sono identici tra di loro presentando un piccolo difetto di impronta di punzonatura delle lettere G e L. I bossoli marca "+GEVELOT+7,65" facevano parte di un lotto fabbricato in epoca successiva al 1976 e facevano parte di bossoli assemblati in cartucce con proiettile di tipo mantellato. Essi non erano molto comuni. - i bossoli marca "G.F.L. erano parte di un lotto fabbricato dopo il 1976 e facevano parte di lotti di fabbricazione per l'interno. - tutti i bossoli erano stati espulsi dalla stessa pistola per le caratteristiche comuni riscontrate su di essi. L'esame dei proiettili aveva evidenziato: - il proiettile estratto dalla lingua di Pecorelli era della marca "G.F.L." e la sua comparazione con materiale di sicura origine indicava per la sua struttura merceologica e quantitativa che era stato esploso da una cartuccia calibro 7,65 Browning/.32 Auto. Si presentava deformato con inglobati dei microcristalli di consistenza vetrosa con indice di rifrazione identico a quello dei cristalli di auto Citroen. La deformazione era attribuibile all'impatto primario contro il cristallo della portiera anteriore sinistra dell'auto di Pecorelli. - Anche il proiettile estratto dal torace ( quello più in basso ) era un proiettile marca "G.F.L." ed aveva le stesse caratteristiche individuate per il primo proiettile. - in sede sacrale ed in sede pettorale alta i due proiettili erano merceologicamente diversi e erano riconducibili a cartucce marca "GEVELOT" di fabbricazione recente. Anche tali proiettili avevano inglobati microcristalli del vetro Citroen.
- tutti i proiettili, per le caratteristiche riscontrate, erano stati sparati dalla stessa arma munita di silenziatore posto oltre il vivo di volata.
- l'arma che aveva esploso i colpi era una pistola automatica o semiautomatica corta calibro 7,65 e non anche una pistola che per tolleranza di cameratura può sparare proiettili dello stesso calibro; conclusione a cui si perveniva dall'esame delle caratteristiche riscontrate sia sui bossoli che sui proiettili a meno che non fosse provato che la canna era stata sostituita.
- sulla base dell'esame di tutti i modelli di pistola aventi caratteristiche riscontrate sui bossoli e sui proiettili il modello della pistola che aveva esploso i colpi erano solo sette e precisamente : l'astra 300, frommer mod 37, M.A.B. modelle "D", Llama mod X o Franchi Llama 7.65/.32, H&K mod. 4, Mauser mod 1914 e mod HSc, Savage mod 1907,1915,1917, Erma mod KGP 68.
- L'uso di un silenziatore, la morfologia della superficie della testa dell'espulsore, la cameratura perfetta e ben rettificata, la percussione sferica, l'andamento delle fresature di rettifica, la formazione della rigatura di tipo moderno a forgiamento riducevano il tipo di arma impiegato per gli spari ai seguenti modelli: MAB mod "D", Astra 300 e Erma KGP 68. Modelli che permettevano la filettatura della canna - se usata quella originale - per l’applicazione del silenziatore.
- i primi due colpi sparati erano quelli con proiettili marca "G.F.L." ed avevano attinto Carmine Pecorelli al labbro e alla schiena mentre i successivi due proiettili marca "GEVELOT" avevano attinto Carmine Pecorelli alla schiena e alla regione sacrolombare. Tutti avevano impattato il vetro della Citroen. - l'individuazione del modello di arma usato non escludeva che fosse stata usata altra arma assemblata con canna non di fabbrica. - i colpi erano stati sparati da una distanza ravvicinata e comunque non superiore a m 1/1,5 dal vetro della Citroen ( altrimenti un colpo non avrebbe potuto attingere Pecorelli nella schiena quando era oramai riverso sul sedile anteriore destro ). la traiettoria dei colpi dall'alto in basso per quanto attiene a quelli che avevano colpito Pecorelli alla schiena e alla spalla sinistra, il foro di entrata dei proiettili attraverso il vetro indicavano che la persona che aveva sparato aveva una statura compresa tra cm 170 e cm 180. L’esame dei periti che avevano eseguito la perizia balistica/necroscopica aggiungevano altri particolari e cioè che: la morte di Carmine Pecorelli non era stata istantanea, ma dal momento degli spari a quello del decesso erano trascorsi circa 10 minuti. La pistola che aveva sparato oltre a quelle indicate prima poteva essere anche la Beretta mod. 81 che, a seguito degli ulteriori accertamenti svolti dal perito nel corso degli anni, aveva mostrato di avere la possibilità di un inserimento del silenziatore sul vivo di volata (del resto Valerio Fioravanti al momento del suo arresto era in possesso proprio di una Beretta su cui era possibile applicare un silenziatore artigianale).
Sulla base di tali elementi rileva la Corte che non è possibile allo stato, né ulteriori indagini potrebbero supplire alla carenza probatoria, stabilire esattamente la dinamica dei fatti perché la posizione del corpo, come constatata al momento dell’arrivo dei tecnici per la rilevazione dei dati obbiettivi, non era sicuramente quella risultante al momento dell’evento per essere stati spostati da Franca Mangiavacca i bossoli dei proiettili, per essere stato spostato il corpo della vittima, per essere state aperte le portiere e il cassetto del vano porta oggetti. E’ tuttavia possibile affermare con certezza, e queste sono le considerazioni più importanti, che la sera del 20.3.1979 aveva sparato una sola pistola calibro 7,65 munita di silenziatore che era stata caricata con proiettili misti marca Gevelot e marca Fiocchi.
La sequenza degli spari, tutti effettuati attraverso il cristallo della portiera anteriore sinistra, come rettamente posto in luce dai periti Ugolini e Calabresi per la presenza di microcristalli di vetro sui proiettili estratti dal corpo di Pecorelli, indicava che il corpo è stato attinto per primo al volto con un proiettili Fiocchi, successivamente al torace da un altro proiettile Fiocchi e da un proiettile Gevelot e alla schiena dal secondo proiettile Gevelot. Il tramite dei fori indica anche che mentre il primo proiettile è stato esploso quando Pecorelli era in posizione eretta, gli altri sono stati esplosi quando Pecorelli era quanto meno girato verso il lato destro se non addirittura piegato. Ciò non contrasta con quanto riferito dai testi Franca Mangiavacca, Paolo Patrizi e Ciro Formuso perché, come hanno posto in evidenza i periti, la morte non è stata istantanea e Carmine Pecorelli può essersi rialzato dopo essere stato colpito. La circostanza che i colpi sono stati sparati da una sola pistola dà anche conferma alla affermazione di Mangiavacca di avere visto una sola persona vicina alla vettura quando era transitata la prima volta all’incrocio di via Orazio.

La impossibilità di ricostruire esattamente la dinamica dell’omicidio non esclude che venga sgombrato il campo da alcune considerazioni che hanno fatto aleggiare ipotesi misteriose sul processo. Il riferimento è alla presenza di una auto alfa Romeo nei pressi della redazione di OP, ai movimenti di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi dal momento della scoperta del cadavere all’arrivo dei carabinieri, alla presenza dello stesso Ciro Formuso sul luogo del delitto, alle modalità di ingresso nella sede di OP, alla presenza di persone misteriose nella stessa sede diverse dagli ufficiali di polizia giudiziaria e dai pubblici ministeri, alle modalità di apertura della cassaforte esistente nella sede di OP, ad un ruolo di Claudio Vitalone la sera del delitto. Ritiene la corte che si tratta di mere ipotesi che non hanno trovato conferma sul piano processuale o che sono state smentite dalle risultanze emerse a dibattimento. Un elemento comune per le varie ipotesi prospettate è dato dal lasso di tempo trascorso dal fatto che sicuramente ha sbiadito i ricordi e dal clamore che l’omicidio ha creato (se ne è parlato spesso sulla stampa e sui mass media in generale) per cui può esserci stata una sovrapposizione o una trasposizione di ricordi che può avere generato errori nei ricordi.
Ciò detto, si osserva.
Circa la presenza di una vettura alfa Romeo 1750, auto comune all’epoca, è riferita dal capitano Antonino Tomaselli il quale ha richiamato la testimonianza di tale Franco Santini, resa a un Maresciallo della Compagnia San Pietro, il quale alle ore 20.30 circa si era recato in Via Orazio a parcheggiare una motoretta, e aveva notato l’alfa Romeo 1750 con tre persone. Nulla è emerso per poter affermare, al di là di una mera coincidenza temporale, che gli occupanti della vettura fossero coinvolti nell’omicidio. Circa i movimenti di Franca Mangiavacca e Paolo Patrizi dal momento della loro uscita dalla redazione di OP al momento del loro trasferimento presso la caserma dei carabinieri per essere interrogati. È ben vero che all’apparenza vi sono delle discrasie e che la presenza di Paolo Patrizi non è stata notata da Ciro Formuso, ma ciò, come già detto, può essere il frutto del lungo lasso di tempo trascorso dal giorno del fatto al momento in cui hanno reso la testimonianza avanti a questa corte. Nulla autorizza a ritenere che in quel frangente uno dei due sia risalito nella sede di OP e che di lì abbia sottratto documenti importanti (tale è il senso delle numerose domande che sono state fatte ai due testimoni sul punto); anzi dalla testimonianza del capitano Tomaselli e del tenente Mascia emerge che i due erano in stato di agitazione dovuta alla morte di Carmine Pecorelli che aveva influito notevolmente sulla loro tranquillità d’animo e ciò può avere influito nella distorsione dei ricordi.
L’effettiva presenza di Ciro Formuso sul luogo dell’omicidio emerge dagli atti del fascicolo esistente presso la questura di Roma da cui si evince che la comunicazione della morte di Carmine Pecorelli era pervenuta al centro operativo tramite il brigadiere DI SANTO della sala operativa dei carabinieri il quale aveva riferito anche che la segnalazione era pervenuta dall’allievo ufficiale Ciro Formuso alle ore 21.00 ( a ciò deve aggiungersi la testimonianza del capitano Tomaselli il quale aveva appreso della presenza di Ciro Formuso dai giornali i quali lo indicavano come colui che era intervenuto sul posto chiamato da Franca Mangiavacca. Circa le modalità di ingresso nella sede di Op e la presenza di persone nella sede che avrebbero aperto la porta emerge dagli atti che fin dalle ore 22,30 del 20/3/1979 la polizia giudiziaria era in possesso delle chiavi della sede di Op perché rinvenute nella disponibilità di Carmine Pecorelli al momento della sua morte; evidente quindi, poiché le chiavi erano solo nel possesso di Franca Mangiavacca e Carmine Pecorelli e la prima non era presente al momento della apertura della sede, che personale della polizia ha provveduto ad aprire la sede di OP con le chiavi rinvenute nella macchina di Carmine Pecorelli.
Quanto detto trova conferma nella comunicazione della questura di Roma del 1.4.1994 in cui si dà atto da un lato che nessun servizio di pattuglia fu fatto dall’agente Michelangelo Pirelli (colui che secondo alcuni avrebbe detto che si era recato presso la sede di Op ma ne era stato mandato via da persone che si trovavano all’interno )la sera del 20.3.1979. Circa un ruolo di Claudio Vitalone la sera del delitto, esso alla luce delle risultanze processuali va escluso. Sul punto le fonti di prova, complessivamente valutate, permettono di affermare, anche se sulla base di ricordi a volte confusi, che la sera del 20.3.1979 a casa di Maria Di Bernardo (meglio nota come Maria Palma dal nome del marito) vi era stata una cena a cui avevano partecipato Domenico Sica, Walter Bonino, Claudio Vitalone, Antonio Varisco, Giovanni De Matteo con le rispettive consorti. La circostanza è ricordata da Walter Bonino, da Maria Di Bernardo, da Giovanni De Matteo, da Domenico Sica e da Pia Lastaria e indirettamente è confermata, anche se relativamente al solo Antonio Varisco, da Cristina Nosella che in quel periodo aveva una relazione sentimentale con questo ultimo. E’ stato sostenuto che l’occasione in cui si sarebbe verificata la cena con la presenza contemporanea di Sica, De Matteo e Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo non è quella della uccisione di Pecorelli, ma quella del 23.1.1979 in cui dai predetti tre PM era stato effettuato di un sopralluogo a Ornano, dove si sospettava che vi fosse un covo di terroristi.
La circostanza del sopralluogo è vera, ma non si identifica con la cena tenutasi a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio di Pecorelli. Depongono in tal senso la testimonianza di Sica, il quale ricorda esattamente che in una sola occasione in cui era ospite di Di Bernardo ha interrotto la cena ed è pacifico che Sica è intervenuto sul luogo del delitto a seguito della chiamata effettuata dall’allora tenente Alfieri che si era recato a casa di Maria Di Bernardo a prelevarlo, e di Pia Lastaria la quale, anche se a contestazione, ha confermato quanto dichiarato nelle indagini preliminari e cioè che a Ornano erano andati suo marito, Sica e Claudio Vitalone e che suo marito era ritornato a casa di Maria Di Bernardo dopo il sopralluogo mentre nel caso dell’uccisione di Pecorelli suo marito era stato dissuaso dall’andare sul luogo dell’omicidio dai sostituti Sica e Vitalone. In tal senso si spiega anche l’affermazione di Sica di avere avuto delega orale a trattare il caso, delega regolarizzata successivamente alla formazione del fascicolo di ufficio. Né la partecipazione a tale cena di De Matteo e della moglie, basata quanto al primo sulla mancata annotazione dell’evento sulla sua agenda e quanto alla seconda sulla mancanza di ricordi perché è lo stesso De Matteo che ammette che non tutto ciò che gli accadeva era segnato sull’agenda mentre la seconda ha, a contestazione, confermato quanto dichiarato nelle indagini preliminari e cioè di essere stata presente a quella cena.
Ma la presenza di Claudio Vitalone a casa di Maria Di Bernardo la sera dell’omicidio Pecorelli non significa nulla atteso che non vi è prova di una qualsiasi attività da parte di quest’ultimo quella sera. Né incide sulla valutazione del dato processuale il fatto, asserito da Maria Di Bernardo che quella sera era pervenuta una telefonata per Claudio Vitalone con cui si annunziava la morte di Pecorelli. Invero dalla deposizione del tenente Alfieri si ha la prova che egli aveva parlato con Sica, da lui cercato su espressa indicazione del suo comandante Cornacchia, prima nella sua abitazione e poi a casa di Maria Di Bernardo. Circostanza questa confermata dalla deposizione di Walter Bonino da cui si evince che la telefonata che comunicava la morte di Carmine Pecorelli era arrivata a Sica mentre stavano per andare a tavola e fu da questi detta perché doveva andare via con Varisco. E’ ben vero che potrebbero essere giunte a casa Di Bernardo due telefonate, ma di ciò non vi è prova alcuna (la stessa Di Bernardo parla di una sola telefonata) e l’affermazione di Maria Di Bernardo di una telefona da lei presa dal centralinista e diretta a Vitalone, il quale subito dopo le avrebbe detto che Pecorelli era un poco di buono, può essere anche frutto di una sovrapposizione di ricordi (non va dimenticato che le cene di Claudio Vitalone a casa di maria Di Bernardo non erano un evento raro) risultando sulla base di una altra informazione data da Walter Bonino e cioè che subito dopo che era stata comunicata la morte di Pecorelli, Maria Di Bernardo si era appartata in una stanza e al ritorno aveva detto che Carmine Pecorelli non era uno stinco di santo, ma non sa dire da chi avesse appreso la notizia. Questa ultima affermazione se da un lato conferma indirettamente quanto detto da Maria Di Bernardo, e cioè di avere appreso da Claudio Vitalone le qualità morali di Carmine Pecorelli non conferma anche l’arrivo di una seconda telefonata annunziante la morte di Pecorelli. Conseguentemente l’affermazione di una repentina uscita di Vitalone insieme a Sica e Varisco, non ricordata da nessuno dei presenti se non dalla sola Di Bernardo (Bonino ricorda in effetti, pur non avendo motivo di dubitare di quanto affermato da Di Bernardo, che ad andare via erano stati i soli Varisco e Sica e non anche Vitalone), non può ricollegarsi che alla stessa occasione, diversa da quella della sera dell’omicidio Pecorelli, in cui effettivamente era stato richiesto l’intervento di Vitalone il quale aveva dovuto abbandonare la cena.

continua >>>

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