NOTIZIARIO del 7 maggio 2003

 
     

Premessa del volume tratto dai seminari “Culture per la pace” organizzati dall'Universita' di Tor Vergata, Roma*

La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente...

Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda è la voce del nemico
E chi parla del nemico è lui stesso il nemico...
B. Brecht

PREMESSA

In alcuni appunti redatti intorno al 1955, a corredo del dramma Madre Courage e i suoi figli, Bertolt Brecht osservava: Gli spettatori d’una catastrofe si attendono – ben a torto – che i colpiti ne traggano qualche ammaestramento. Fintatoché le masse saranno oggetto della politica non potranno mai vedere, negli avvenimenti che le toccano, un esperimento ma soltanto una fatalità. Dalle catastrofi non impareranno nulla più di quanto una cavia possa imparare di biologia . In particolare, era opinione di Brecht che dalla guerra non fosse possibile imparare alcunché di positivo, neanche il ripudio di ogni altra guerra: La sventura, da sola, è una cattiva maestra; i suoi allievi imparano la fame e la sete ma non altrettanto spesso la fame di verità e la sete di sapere. I mali non bastano a fare del malato un medico. Vedere da lontano, vedere da vicino non basta a fare, d’un testimone oculare, un esperto.

A questa opinione alquanto pessimistica sulle capacità di discernere le atrocità della guerra (da parte di chi la guerra aveva promosso o accettato, salvo restarne una vittima), Brecht aggiungeva una considerazione di tutt’altro tono: probabilmente, anche il pubblico tedesco, che aveva partecipato in qualche forma alla guerra hitleriana, non avrebbe capito fino in fondo il senso di quel lavoro teatrale. Tuttavia, la ragione per cui Brecht aveva voluto scrivere il dramma era proprio quella di stimolare negli spettatori la convinzione che la guerra conduce soltanto a sciagure: se la Courage continua a non imparare nulla, il pubblico, osservandola, dovrebbe, secondo me, imparare qualcosa. [...] il problema dei mezzi artistici più idonei si riduce al seguente quesito: come possiamo noialtri autori teatrali attivare socialmente (scuotere, mettere in moto) il nostro pubblico? Tutti i mezzi artistici, vecchi o nuovi che siano, capaci di dare un aiuto in tal senso, dovremmo sperimentarli in funzione di questo scopo .

Diffondere una cultura di pace, mettere in mostra e demolire le ragioni di chi propugna e scatena la guerra sembrava – già negli anni ’50 del secolo scorso – un’impresa qualificante, assegnata al lavoro intellettuale. Tuttavia, come è apparso chiaro successivamente, malgrado l’opposizione alla guerra sia stata in tutto il mondo un tratto comune, caratteristico della migliore cultura post-bellica, non si può dire che i quattro decenni successivi al secondo conflitto mondiale siano stati davvero dei tempi di pace. Anche se il conflitto non ha assunto l’aspetto di un’unica deflagrazione mondiale, in Asia, in Africa e in America Latina è stata condotta per quattro decenni una guerra di predominio effettivo, senza quartiere. Perfino ai confini dei due blocchi imperiali – in Grecia, nel Messico, nell’America Centrale, oppure nei paesi dell’est europeo – il conflitto è stato più volte gestito con la forza brutale dei mezzi militari. Come era già accaduto nella seconda metà del XIX secolo, anche nel corso del ‘900 s’è dunque registrata una fatale aporia: la resistenza dei popoli oppressi al potere imperiale, che si è espressa sovente nella forma delle lotte di liberazione nazionale, non s’è mai risolta – salvo rare e temporanee eccezioni – nella emancipazione effettiva di quei popoli dal pericolo di nuove guerre, o nell’indipendenza reale dei territori liberati dalla presenza straniera.

Agli inizi del ‘900, negli strati più avanzati della cultura e della lotta sociale, s’era andata diffondendo l’idea che il processo di costituzione degli stati nazionali fosse ormai terminato, sicché nessuna guerra avrebbe potuto avere oramai il supporto delle classi lavoratrici. Come aveva proclamato nel 1907 Jean Jaurès, al congresso di Stoccarda dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori: Ora che i grandi popoli d’Europa sono costituiti, non ci sono altro che guerre capitalistiche . Trasformare le guerre capitalistiche in altrettante occasioni per abbattere il capitalismo: fu questa la posizione unanime allora assunta dai rappresentanti di tutti i paesi evoluti. Ma, al di là della visione alquanto angusta, Europa-centrica, che ispirava quelle analisi e quelle intenzioni, i fatti avrebbero dimostrato che il nodo concettuale e concreto della guerra era tutt’altro che sciolto. Di lì a poco, sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale, che avrebbe spaccato – proprio in nome della difesa degli interessi divergenti d’ogni nazione – lo stesso movimento internazionale dei lavoratori.

Successivamente, fino all’epoca nostra, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale, le guerre in Indocina e in Corea, la guerra di liberazione in Algeria, la guerra del Vietnam – tanto per citare quelle più note e significative – avrebbero dimostrato che c’era ancora spazio, nel mondo, per una distinzione tra guerre “giuste” e guerre “ingiuste”, tra guerre “difensive” e guerre “offensive”, tra guerre di liberazione e guerre imperialistiche. Lo stesso Brecht, ritenendo che fosse errato e fuorviante porre sullo stesso piano tutte le guerre, volle aggiungere nella sua Condanna di Lucullo il “canto dei legionari caduti”, un lamento corale, nel quale i combattenti morti per una causa ingiusta esprimono il loro rimpianto, per avere prestato il loro servizio a Lucullo e non avere soccorso piuttosto le popolazioni aggredite, in difesa del loro paese . Perché dunque oggi, agli inizi del secolo nuovo, dopo queste esperienze, bisognerebbe al contrario perseguire in ogni caso la pace, senza molti aggettivi? Perché dunque – fermo restando il diritto di resistenza, sul piano dell’etica e della norma – ogni distinzione tra guerra “giusta” e guerra “ingiusta” potrebbe in qualche modo arretrare, nella scala dei nostri giudizi, affermandosi invece il valore d’una pace assoluta, radicata, duratura e diffusa?

E’ sempre arduo e rischioso pretendere di stabilire qualche criterio assoluto. Si rischia di essere smentiti dai fatti, da eventi più forti dei nostri principi “assoluti”; si rischia di rimanere spiazzati per accadimenti gravissimi, in grado di modificare le coscienze degli uomini, come accadde quasi un secolo fa a molti esponenti del movimento operaio. Però, se si può dare un senso alla straordinaria mobilitazione dei milioni di donne e di uomini che sono scesi in piazza in tutti i paesi, per manifestare – nelle settimane in cui stiamo scrivendo – la loro opposizione più netta a quella mostruosità concettuale che è l’idea stessa d’una “guerra di difesa preventiva”, allora si può cercare di dire che sì, la ricerca d’una pace senza aggettivi ha probabilmente un valore profondo, nell’epoca che noi stiamo vivendo. Una delle tesi principali intorno alla quale ruotano i saggi raccolti in questo volume è infatti in sintesi questa: che con l’unificazione completa del mercato mondiale e con l’affermarsi dell’egemonia d’una sola potenza – sul terreno della tecnica, dell’economia, degli stili di vita e delle armi – la guerra (e il suo corrispettivo, il terrore) possa diventare una forma fisiologica, nella quale può consolidarsi l’attuale dominio. L’attuale tendenza del sistema dominante può svuotare qualsiasi prerogativa delle istituzioni democratiche, può portare a un regresso impensabile dell’apparato giuridico, dando luogo ad uno stato perenne d’emergenza, trattando ogni dissenso come una manifestazione del “nemico”, respingendo l’antagonismo verso le posizioni più estreme, distruttive e suicide.

Pur con tutte le distinzioni del caso (riferibili al fatto che il primo fondamentalismo è oggi l’espressione di alcune parti soccombenti, mentre l’altro è l’espressione di una minoranza dominate), il fondamentalismo religioso e quello militare si sostengono insieme, facendo intravedere scenari devastanti, in cui le stesse conquiste fondamentali dell’era moderna sembrano messe in discussione. Per contro, la lotta per la pace – in quanto lotta contro la forma specifica nella quale tende ad organizzarsi oggi il sistema internazionale del dominio – può costituire davvero l’ambito dentro al quale può raccogliersi la moltitudine dei popoli, per la costruzione d’un mondo più giusto e, proprio per questo, poco incline alle suggestioni di guerra. La lotta per estendere il movimento della pace è per noi, in primo luogo, una lotta che si compie sul terreno della ragione. Come ebbe a notare Erasmo, cinque secoli fa: Se giudichi peggior condizione per uno Stato quella in cui i peggiori prevalgono, la guerra è il regno dei più scellerati e in guerra brillano coloro che in pace inchioderesti al patibolo

Tuttavia, lo stesso Erasmo era piuttosto incline a giudicare con pessimismo la lotta condotta sul solo terreno della cultura: Ecco anche qui un altro genere di guerre, certo meno cruento ma non meno folle [...]; addirittura in una stessa università il retorico è in guerra col logico, il teologo dissente dal giurista, e persino nella medesima disciplina lo scotista è in conflitto col tomista, il nominalista col realista, il platonico con l’aristotelico, a tal segno che nemmeno sui punti più minuti esiste accordo tra loro e sono frequenti i duelli più fieri su questioni di lana caprina . Ma l’epoca in cui Erasmo scriveva era appunto quella in cui iniziava lo storico processo di costituzione dei popoli, l’alba delle moderne nazioni. Al giorno d’oggi, nell’epoca del nuovo Impero, può invece darsi che risulti sempre più manifesto, agli occhi delle moltitudini d’ogni parte del mondo, che è proprio nell’interesse del mondo, o della stragrande maggioranza di esso, opporsi ad ogni guerra, porre le condizioni perché tutto questo si affermi, come un orizzonte possibile. Per questo, come è stato notato: Lavorare sulla parola e per la parola è il compito che ci sta davanti. Ciò di cui abbiamo bisogno, sopra il clamore assordante del conflitto, il quale tutto cancella e rende sordi anche i meglio disposti, è che torni a risuonare e farsi udire una modesta voce umana, quella di cui ognuno di noi può esser capace .

Università di Roma “Tor Vergata”, febbraio 2003 1 B. Brecht, Schriften zum Theater, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1963-1964, trad. it Einaudi, Milano 1962-1975, vol. III, p. 203. 2 Ivi, p. 200. 3 Ivi, p. 199. 4 Citato da M. Reberioux, Il dibattito sulla guerra, in Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1979, vol. II p. 920. Durante il congresso di Strasburgo, che si tenne tra il 16 e il 24 agosto del 1907, fu votata all’unanimità – per l’ultima volta – una mozione sul militarismo e sui conflitti internazionali. Già nel successivo Congresso di Basilea, del 1912, cominciarono a manifestarsi quei contrasti che avrebbero portato alla crisi definitiva della II Internazionale, nell’estate del 1914. 5 B. Brecht, op. cit., p. 209. 6 Erasmo da Rotterdam, Querela pacis, trad. it. a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 1990, p. 73. 7 Ivi, p. 19. 8 A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, Torino 2002, p. 231 _____

*Gli interventi raccolti in questo volume sono il risultato dei seminari “Culture per la pace”, organizzati nella primavera dello scorso anno dal Comitato contro la guerra dell’Università di Roma “Tor Vergata”, nelle Facoltà di Scienze e di Lettere e Filosofia. Un ringraziamento particolare va al Magnifico Rettore, prof. Alessandro Finazzi Agrò, che ha reso possibile – con sensibilità e lungimiranza – l’organizzazione dei seminari e la realizzazione di questo volume. I curatori ringraziano tutti coloro che sono intervenuti nella discussione, garantendo – con l’espressione dei loro diversi punti di vista – la ricchezza e la rilevanza di questa esperienza preziosa.