NOTIZIARIO del 29 aprile 2003

 
     

ORDINANZA della Corte costituzionale N.134 dell’anno 2003

LA CORTE COSTITUZIONALE (…) ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell'Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997), e 13 del d.lgs. 16 luglio 1998, n. 295 (recte: 285) (Attuazione di direttive comunitarie in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati pericolosi, a norma dell'articolo 38 della legge 24 aprile 1998, n. 128), promosso con ordinanza del 9 novembre 2001 dal Tribunale di Venezia, iscritta al n. 309 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visti l’atto di costituzione di Zancanaro Pier Luigi nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2003 il Giudice relatore Valerio Onida; uditi l’avvocato Giuseppe M. Sacco per Zancanaro Pier Luigi nonché l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con ordinanza emessa il 9 novembre 2001, pervenuta a questa Corte il 14 giugno 2002, il Tribunale penale di Venezia, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 76 della Costituzione, dell’art. 2, comma 1, lettera c, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell'Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997), e dell’art. 13 del decreto legislativo 16 luglio 1998, n. 295 (recte: 285) (Attuazione di direttive comunitarie in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati pericolosi, a norma dell'articolo 38 della legge 24 aprile 1998, n. 128); che il remittente premette di dover giudicare un imputato del reato previsto e punito dall’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998 – immissione sul mercato di preparati pericolosi in violazione delle disposizioni in tema di imballaggio e di etichettatura e delle disposizioni in tema di classificazione dei preparati medesimi, contenute nel medesimo decreto legislativo o nelle norme da esso richiamate –, e afferma che tale norma delegata trova la sua fonte nella delega di cui alla legge n. 128 del 1998, la quale, all’art. 2, comma 1, lettera c, detta i criteri direttivi generali per la determinazione delle sanzioni penali o amministrative per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi ivi previsti; che, secondo il medesimo remittente, trattandosi di un decreto legislativo delegato, il precetto penale dovrebbe "rispondere a criteri di rigore analiticità e chiarezza al fine di non contrastare con il combinato disposto degli articoli 76 e 25, secondo comma, della Costituzione"; mentre la disposizione denunciata della legge di delega, là dove prevede la possibilità di stabilire sanzioni penali nei soli casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali dell’ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli articoli 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689, difetterebbe di tali presupposti; che, infatti, ad avviso del giudice a quo, per "l’ampiezza esorbitante delle materie" risultanti dalle citate disposizioni della legge n. 689 del 1981 (le quali, ai fini della esclusione dalla depenalizzazione di reati, puniti con pene pecuniarie, previsti dalla legislazione preesistente, si riferiscono all’intero codice penale e ad un’amplissima serie di ambiti), nonché per la vaghezza e genericità del dettato normativo, non sarebbe soddisfatta la necessità che "il precetto penale delegato contenga determinazioni chiare e certe", poiché il riferimento agli interessi generali dell’ordinamento individuati in base a criteri ispiratori "troppo ampi e indeterminati" non consentirebbe di precisare quali siano gli interessi da proteggere né di individuare quali lesioni di questi interessi meritino sanzione penale; che si è costituito l’imputato nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione; che, secondo la parte privata, lo strumento del decreto delegato non sarebbe idoneo ad assolvere alla riserva assoluta di legge prevista dall’art. 25 Cost., a ciò ostando le esigenze di certezza proprie della fattispecie incriminatrice, nonché la necessità che il diritto penale sia sorretto da una "legittimazione democratica" particolarmente robusta, assicurabile solamente attraverso il confronto parlamentare (imperativo reso particolarmente acuto dalla proliferazione, verificatasi a detta della parte negli ultimi anni, di interventi in campo penale condotti attraverso leggi delega di iniziativa governativa, tra le quali la cd. legge comunitaria); che, prosegue la parte, in casi di siffatta natura (attuazione per mezzo di decreti delegati di direttive comunitarie), il cd. deficit democratico da cui la Comunità sarebbe afflitta verrebbe ad indebolire ulteriormente lo spazio partecipativo assegnato al Parlamento e ad esaltare il ruolo dell’Esecutivo, atteso che "il perno dei processi decisionali comunitari è il Consiglio dell’Unione Europea", sicché, in tale contesto, la delega legislativa non potrebbe divenire strumento "ordinario di politica penale" e si imporrebbe, in ogni caso, un controllo particolarmente rigoroso da parte del Parlamento nazionale nel corso del procedimento di legislazione delegata, tramite la formulazione di stringenti principi e criteri direttivi; che, al contrario, secondo la parte privata, l’art. 2 della legge delega, rinviando agli artt. 34 e 35 della legge n. 689 del 1981, ai fini della scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa, si varrebbe di una formula "vaga e controversa", e comunque troppo ampia per indirizzare adeguatamente l’attività di legislazione delegata (come la Corte avrebbe già rilevato tramite i "moniti" svolti nelle sentenze n. 53 del 1997 e n. 49 del 1999); che, "in via subordinata", qualora non si dovesse ritenere fondata la censura proposta avverso la legge delega, ritiene la parte che il decreto delegato sia a sua volta incostituzionale per eccesso di delega, giacché la direttiva comunitaria 88/379 avrebbe concesso agli Stati la mera facoltà di esigere un’etichettatura dei preparati in lingua nazionale: tale scelta sarebbe stata compiuta dal decreto delegato "autonomamente", in difetto di delega; inoltre, il presidio penale introdotto dall’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998, in caso di omessa etichettatura in lingua italiana, verrebbe a tutelare un interesse estraneo alle finalità perseguite dalla direttiva comunitaria, le quali a loro volta dovrebbero orientare il legislatore nella definizione delle condotte che ledano o espongano a pericolo beni meritevoli di protezione penale; che, aggiunge la parte privata, sfuggirebbe quale interesse la norma incriminatrice venga a tutelare nel caso di specie: esso non si potrebbe ravvisare nel bene dell’ambiente, poiché il preambolo del d.lgs. n. 285 del 1998 premette che "in sede comunitaria non sono stati ancora definiti, per i preparati pericolosi, i criteri per la classificazione relativa al rischio per l’ambiente", sicché " non risult(erebbe) possibile emanare disposizioni in materia". che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata; che la difesa erariale osserva che l’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998 individua in modo "chiaro e puntuale" sia la condotta incriminata, sia la sanzione comminata; a sua volta, la legge delega risponderebbe a quanto imposto dai "principi di legalità, tassatività e specificità", poiché sarebbero indicati sia il criterio cui attenersi nella scelta tra sanzione penale e sanzione amministrativa, sia i limiti delle pene, sia "il criterio di comparazione con norme sanzionanti violazioni di interessi omogenei e di pari offensività" (atteso che l’art. 2 della legge n. 128 del 1998 prevede il ricorso a sanzioni penali o amministrative "identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni medesime"). Considerato che si deve preliminarmente correggere il riferimento fatto dal remittente alla disposizione di legge delegante su cui si fonda la norma del decreto delegato impugnata; che, infatti, il d.lgs. n. 285 del 1998 non è stato emanato sulla base della delega contenuta nell’art. 1 della legge n. 128 del 1998 – relativa all’attuazione di una serie di direttive comunitarie, elencate nell’allegato A alla medesima legge, fra le quali non è compresa la direttiva 88/379/CEE in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati pericolosi – e per la quale erano dettati i criteri direttivi generali contenuti nell’impugnato art. 2, comma 1, lettera c, della stessa legge; bensì è stato adottato sulla base dell’art. 38 della legge n. 128 del 1998, che delegava il Governo ad emanare, entro un termine autonomo e più breve di quello dell’art. 1, un decreto legislativo "recante, a completamento delle disposizioni emanate ai sensi dell’articolo 38 della legge 6 febbraio 1996, n. 52, le norme necessarie a dare integrale ed organica attuazione alla direttiva 88/379/CEE del Consiglio e successive modificazioni", e stabiliva, per l’esercizio di tale delega, che si applicassero "i principi ed i criteri direttivi previsti dall’articolo 38 della legge n. 52 del 1996"; che, a sua volta, tale ultima disposizione dettava specifici criteri direttivi per l’attuazione della direttiva 92/32/CEE in tema di classificazione, imballaggio ed etichettatura delle sostanze pericolose, che integravano (cfr. sentenza n. 49 del 1999) i criteri generali stabiliti nell’art. 3 della stessa legge n. 52 del 1996, validi per l’attuazione delle direttive elencate nell’allegato A alla medesima, fra cui era compresa quest’ultima direttiva: criteri tutti che il legislatore delegante del 1998 ha evidentemente inteso estendere all’attuazione della direttiva 88/379/CEE, e successive modificazioni, in tema di preparati pericolosi; che, peraltro, il tenore del criterio di delega dettato dall’art. 3, comma 1, lettera c, della predetta legge n. 52 del 1996 è testualmente identico a quello dell’art. 2, comma 1, lettera c, della legge n. 128 del 1998, cui fa riferimento il remittente; che, pertanto, è a detto art. 3, comma 1, lettera c, della legge n. 52 del 1996, unitamente al denunciato art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998, che deve riferirsi la censura del remittente; che detta censura si appalesa però manifestamente infondata; che, infatti, essa confonde i requisiti di determinatezza che deve possedere la norma incriminatrice, allorquando delinea la fattispecie di reato, per essere conforme all’art. 25 della Costituzione, al fine di garantire ai destinatari la preventiva conoscenza di quali siano le condotte punite, con la sufficiente determinazione dei principi e dei criteri direttivi che deve rinvenirsi nelle leggi di delegazione per poterle ritenere conformi all’art. 76 della Costituzione; che, in concreto, la norma incriminatrice contenuta nell’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998 determina in modo preciso le condotte sanzionate penalmente, e dunque non contrasta con le esigenze che discendono dal principio costituzionale di legalità in materia di reati e di pene; che – una volta ammesso, come la giurisprudenza di questa Corte ha sempre ammesso (cfr. sentenze n. 26 del 1966; n. 113 del 1972; n. 282 del 1990), il ricorso alla delegazione legislativa per l’introduzione di nuove norme penali, sulla base della equiparazione fra legge ed atti aventi forza di legge ai fini del rispetto della riserva di legge di cui all’art. 25 della Costituzione – dall’art. 76 della Costituzione discendono, da una parte, il vincolo della legge delegata ai criteri direttivi della delega (vincolo il cui rispetto non è qui messo in discussione, nella specie, dal giudice a quo), nonché, dall’altra parte, l’obbligo, a carico del legislatore delegante, di definire l’oggetto della delega e di indicarne i principi e criteri direttivi, senza lasciare il Governo delegato libero di effettuare qualsiasi scelta, ma anche senza doverne vincolare tutte le scelte concrete, restando invece affidate queste ultime, nei limiti dei criteri direttivi, proprio al delegato; che il livello di specificazione dei principi e criteri direttivi può in concreto essere diverso da caso a caso, anche in relazione alle caratteristiche della materia e della disciplina su cui la legge delegata incide, ma, in ogni modo, esso non ha a che vedere con le esigenze di determinatezza della norma incriminatrice, nella specie soddisfatte dalla formulazione del decreto legislativo; che il criterio di delega preso in considerazione dal remittente, espresso con formule più volte adottate dal legislatore nel delegare il Governo a dettare norme di attuazione delle direttive comunitarie, non può dirsi tale da non rispondere ai requisiti minimi dell’art. 76 della Costituzione, ancorché, per la grande varietà degli oggetti della delega, concernente l’attuazione di direttive afferenti alle più diverse materie, tali formule rischino di risultare di non facile interpretazione: donde l’invito, rivolto da questa Corte al legislatore (cfr. sentenze n. 53 del 1997 e n. 49 del 1999), in relazione a disposizioni di delega di siffatto tenore, affinché impieghi formule più precise; che, in ogni caso, la legge di delega considerata delimitava sufficientemente l’ambito delle scelte del Governo nell’impiego dello strumento penale, sia definendo la specie e l’entità massima delle pene, sia dettando il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di interessi particolarmente rilevanti, analoghi a quelli che avevano indotto il legislatore, con gli articoli 34 e 35 della legge n. 689 del 1981, ad escludere determinate fattispecie dalla depenalizzazione (fattispecie che il legislatore del 1981 aveva individuato bensì avendo riguardo ad una pluralità di testi legislativi, fra cui il codice penale, ma pur sempre con riferimento circoscritto alle ipotesi – astrattamente riconducibili all’oggetto della disposta depenalizzazione – per le quali nella legislazione preesistente erano previste solo pene pecuniarie); che non può essere presa in considerazione la censura prospettata "in via subordinata" dalla parte privata in ordine all’art. 13 del d.lgs. n. 285 del 1998, che avrebbe ecceduto dalla delega nell’individuare le fattispecie sanzionate penalmente, poiché tale censura è estranea all’ordinanza di rimessione, che delimita, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto e l’ambito della questione di legittimità costituzionale (cfr. ad es. ordinanze n. 464 del 1999; n. 44 del 2001; n. 219 del 2001). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell'Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1995-1997) (recte: dell’art. 3, comma 1, lettera c, della legge 6 febbraio 1996, n. 52, recante "Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 1994"), e dell’art. 13 del d.lgs. 16 luglio 1998, n. 285 (Attuazione di direttive comunitarie in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura dei preparati pericolosi, a norma dell'articolo 38 della legge 24 aprile 1998, n. 128), sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 2003.