NOTIZIARIO del 19 ottobre 2003

 
     

Per dare ordini ai Magistrati
di Gerardo D’Ambrosio

Gli avvocati sono di nuovo in sciopero. Protestano perché la maggioranza di governo non avrebbe mantenuto le promesse di riforma della Giustizia, fatte durante la campagna elettorale, non avrebbe attuato in particolare la separazione delle carriere tra Pubblici Ministeri e Giudicante. Questa, a loro avviso, costituirebbe il punto nodale per l’attuazione del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione.

Nella proposta di riforma dell’Ordinamento Giudiziario avanzata dal ministro di Giustizia il governo ha preferito seguire la strada della separazione delle funzioni. E questo nonostante il maxiemendamento seguito alla pronuncia della Sentenza a sezioni unite della Cassazione che respingeva le istanze di remissione per legittima suspicione avanzate nei noti processi di Milano e l'emendamento Boato seguito alla pronuncia di condanna in primo grado dell'on. Previti.

Gli argomenti usati a sostegno della separazione delle carriere, com'è noto, sono sostanzialmente due. Il primo è che nei processi di tipo accusatorio il P.M. sarebbe un funzionario dello Stato sottoposto o all'esecutivo o ad un organo elettivo. È però sin troppo facile rilevare che un pubblico Ministero siffatto sarebbe in contrasto con quanto sancito dai nostri padri costituenti nella sez. I° del titolo IV della stessa Costituzione.

Essi, dopo le non felici esperienze della subordinazione dei P.M. al Ministro di giustizia durante il ventennio di dittatura fascista, pensarono non solo di sottrarlo all'esecutivo ma addirittura di affidare sia i P.M. che i giudici appartenenti ad unico organo indipendente ed autonomo, al governo di un Organo di rilevanza Costituzionale: il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica.

Il secondo è che il riferimento alla separazione delle carriere sarebbe già contenuto nell'art. 111 della Costituzione novellato, com'è noto, nel novembre del 1999. Detto riferimento dovrebbe trarsi dal fatto che il primo comma di detto articolo prevede che il processo si svolga davanti a “giudice imparziale e terzo”. E terzo significherebbe, appunto, appartenente ad una organizzazione diversa da quella del Pubblico Ministero.

Anche per questo argomento è però facile obbiettare che le parole imparziale e terzo sono assolutamente sinonimi ed interscambiabili: un giudice è imparziale se è terzo ed è terzo se è imparziale. Per convincersene basti pensare: che il contenuto dell'art. 111 è stato mutuato dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che a tale proposito usa l'espressione “giudice imparziale”; che la Corte di Giustizia Europea, chiamata più volte a pronunciarsi sul punto, ha sempre affermato che è imparziale chi non è stato mai chiamato in precedenza ad occuparsi del caso e chi non è in alcun modo interessato alla vicenda; che il nostro codice dell'88 e le riforme successivamente introdotte hanno avuto cura di inserire tutti i principi necessari ad attuare l'imparzialità del giudice.

Si pensi a tutte le norme sulle incompatibilità e sull'obbligo di astensione dei giudici, alla distinzione tra GIP e GUP introdotta da ultimo, che costituiscono ormai un sistema armonico ed efficace diretto ad ottenere che mai un giudice che abbia interesse nel processo o che comunque in qualsiasi modo si sia interessato in precedenza della vicenda oggetto del processo, possa essere chiamato a decidere. Del resto, se così non fosse, se i due termini non fossero sinonimi e la parola terzo non fosse stata usata come semplice rafforzativo, dovrebbe concludersi che per realizzare il giusto processo occorrerebbe anche separare le carriere dei magistrati di I^ grado da quelle di appello ed entrambe da quella di Cassazione.

Tanto premesso e posto che, dopo l'entrata in vigore delle leggi sulle indagini difensive, sulla difesa d'ufficio, sull'accesso al gratuito patrocinio, sulla raccolta delle prove e dopo le direttive impartite da ultimo dal C.S.M. perché magistrati trasferiti dalla requirente alla giudicante nella stessa sede non siano destinati alle sezioni penali, mi pare che l'unico principio fissato nell'art. 111 della Cost. e non ancora attuato, sia quello relativo alla ragionevole durata del processo.

Ed è sull'attuazione di questo principio quindi, a mio avviso, che magistrati, avvocati e mondo politico dovrebbero cominciare a confrontarsi. Tanto più che è assolutamente pacifico che la separazione delle carriere nessuna incidenza avrebbe o potrebbe avere sulla durata dei processi penali, e che l'attuale durata del processo, come da tutti unanimemente riconosciuto, è divenuta ormai assolutamente incompatibile con uno stato civile e democratico.

Una sentenza di condanna o di proscioglimento che interviene dopo cinque-sei anni o più dal momento in cui è stato consumato il fatto non potrà mai essere “giusta”. Uno dei temi da affrontare è certamente quello dell'attuale sistema previsto dal nostro codice per le impugnazioni che, senza dubbio, non è compatibile con principi fondamentali del processo accusatorio.

Nel processo accusatorio la sentenza di I° grado è esecutiva, l'appello non può consistere nel riesame delle prove, perché nessun altro giudice potrebbe farlo meglio di chi ha assistito alla loro raccolta e si è pronunciato subito dopo aver ascoltato i difensori delle parti. La cassazione è mero giudice di legittimità e non può entrare nel merito.

Un altro tema è quello dei riti alternativi. In nessuno stato in cui vige il processo accusatorio è contemplato il rito abbreviato o il patteggiamento in appello né che ai riti alternativi o meglio al patteggiamento ed alle congrue riduzioni di pena per esso prevista possa accedere chi non ha ammesso i fatti contestati dall'accusa. Non sono previsti processi contro imputati irreperibili o contumaci, perché è inconcepibile che l'imputato non si presenti al proprio giudice, né è previsto, come avviene nel nostro sistema, che possa impunemente mentire ai propri giudici.

Un altro tema ancora è che le notificazioni diano assoluta certezza dell'effettiva conoscenza da parte dell'imputato dell'esistenza di un procedimento a suo carico ed una volta che ciò sia avvenuto le notificazioni stesse vengano incentrate sul difensore. Ma, a prescindere da queste considerazioni credo che a nessuno sfugga come la separazione delle Carriere, mentre non può portare alcun vantaggio sulla separazione delle funzioni, sia il primo passo verso la sottoposizione del P.M. all'esecutivo, sempre fortemente voluta da chi desidera uno stato autoritario. Questa sottoposizione, come l'esperienza insegna, non va certo a tutela dei cittadini ma a tutela dei poteri forti e proprio per questo negli stati democratici, ove per tradizione permane trova forti correttivi ed un esercizio estremamente limitato.

Non a caso la riforma dell'ordinamento giudiziario, in cui la separazione delle funzioni è stata strutturata in maniera peggiore di quella delle carriere, è stata da molti percepita come una punizione nei confronti della magistratura che ha osato sottoporre a processo i poteri forti. Gli stessi avvocati, del resto, hanno fortemente criticato l'emendamento Boato, presentato a sorpresa e già approvato in sede di commissione al Senato, in forza del quale diventa illecito disciplinare “l'attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la legge o abbia contenuto creativo” quella attività cioè che costituisce l'essenza stessa della giurisdizione e che trova e non può trovare censura se non all'interno del processo. Il riferimento alla vicenda della legge sulle rogatorie è fin troppo evidente. Né è senza significato che numerosi ed autorevoli esponenti del mondo universitario abbiano di recente lanciato un appello per la giustizia nello Stato di diritto.

Si è, alcuni giorni fa, ricordato il quarantennale del disastro del Vajont. Consiglierei di leggere il libro di Mario Passi “Vajont senza fine”. Subito dopo il disastro in cui fu spazzato via un intero paese ed, in buona parte, altri due dalla terribile onda provocata dalla caduta della frana e che scavalcò la diga, furono disposte due inchieste una ministeriale ed una parlamentare. Entrambe conclusero che la caduta della frana era assolutamente imprevedibile.

Se non vi fossero stati un Procuratore della Repubblica che sequestrò tutta la documentazione presso i vari enti, dalla SADE che aveva progettato e costruito la diga al Genio Civile ed al Consiglio superiore delle opere pubbliche ed un giudice istruttore che non si arrese di fronte alle conclusioni dei periti, chiaramente influenzati dai risultati delle predette inchieste; se non vi fossero stati due giornalisti coraggiosi che non ebbero mai alcuna esitazione pur di difendere la libertà ed il pluralismo dell'informazione e riuscirono così a dimostrare che del pericolo frana i dirigenti della SADE erano a conoscenza, tanto da sperimentarne gli effetti in un invaso su scala, nessuno avrebbe mai saputo la verità sulla vicenda e cioè che costruttori e controllori sapevano della frana e della fragilità del monte Toc.

Nessuno ebbe allora il coraggio di attaccare i due magistrati. Appena giunti alla fase del dibattimento però il processo fu trasferito, per “legittimo sospetto”, al Tribunale de L'Aquila, Tribunale che non rese certo giustizia alle duemila vittime di quel disastro.

Sono episodi del nostro passato che ricalcano vicende attuali e che dovrebbero far meditare sulle inchieste parlamentari concorrenti alle giudiziarie, sulla libertà e sul pluralismo dell'informazione, sul legittimo sospetto, sull'indipendenza della magistratura.

L'Unita' 18 ottobre

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